Un consiglio di lettura per l'estate? Ecco, di fresca traduzione italiana presso Adelphi, un romanzo delizioso che ha compiuto 77 anni. Lo pubblicò in Inghilterra nel 1945 Nancy Mitford, scrittrice acuta e impertinente. Siamo negli anni '30, c'è di nuovo odor di guerra e la scena è quella di una grande e bislacca magione di campagna retta da una bizzarra famiglia della piccola aristocrazia terriera. A colpi di humor e di bozzetti quasi surreali Mitford affonda la sua lama sottile nel corpo molliccio della buona società inglese e non fa sconti a nessuno: né ai conservatori imbolsiti, né ai marxisti da salotto, né ai perbenisti in corsa verso denaro, carriere e matrimoni vantaggiosi. Riesce persino a darci la caricatura ( e son passati più di70 anni!) del salutismo esasperato e del "politicamente corretto". I protagonisti principali sono tutti abbastanza stravaganti e dalla noia li salva l'eccentricità. Le ragazze sognano naturalmente l'amore, soprattutto la principale protagonista, viziata, volubile e sventata ma anche coraggiosamente libera e a modo suo pre-femminista.
Questo nostro sito non stronca mai. Cerca di valorizzare quel che giudica buono o molto buono, ignora quel che giudica mediocre o insufficiente. Non abbiamo né l'animo né i titoli per essere stroncatori. Ma ogni tanto - siamo umani, non marziani - viene la tentazione di usare la penna rossa. E assegnare insufficienze. Anche a costo di andare, magari, controcorrente, nel senso di pizzicare i vincenti del momento. Lasciamo pur stare le invereconde "classifiche dei libri più venduti", che sono un diktat degli editori nei confronti anche delle riviste e degli inserti culturali più prestigiosi (stranamente non si pubblicano invece per fortuna statistiche dei concerti e dei teatri più seguiti, dei vini e delle scarpe più venduti, eccetera). E cosi ci ritroviamo da settimane, in testa alla classifica dei libri italiani più venduti e addirittura con un altro suo titolo nella Top 10, una certa Erin Doom con un romanzo evanescente, "Fabbricante di lacrime", Ma anche andando sui libri più consistenti, viene voglia (sempre ogni tanto) di andare contro vento. Un bruscolino dall'occhio ce lo togliamo: il premio Strega. Da anni quel premio (effimero e arbitrario come tutti i premi assegnati da giurie vaghe e comunque soggettive) sembra assurgere, a dire dei media, a un giudizio divino sui libri, a un verdetto infallibile di qualità, quando invece, al di là della ricaduta commerciale (ma sarebbe questo lo scopo del premio?) da anni laurea libri dimenticabili o perlomeno non eccelsi (compreso, sì, il troppo osannato "Colibrì" di Veronesi di due anni fa). Ma quest'anno si è passato il segno: "Spatriati" di Mario Desiati, conclamato e premiato, è un brutto libro e basta, con l'aggravante della furbizia di aver cavalcato l'aura del momento all'insegna dell'ambiguità del tipo gender e sessualità indistinta e giovinezze governate dal "boh". E pensare che in cinquina c'era l'aggraziato, malinconico e divertente romanzo di Claudio Piersanti, "Quel maledetto Vronsky": quello sì avrebbe meritato. In quanto al romanzo vincitore, non volendo inaugurare una funzione di stroncatura critica per la quale non abbiamo i gradi sul cappello, osiamo proporvi parte della recensione subito chiara che addirttura un anno fa, ad agosto, appena uscito il libro, Francesca Sabbatini aveva pubblicato sulla rivista "Pangea".
Spatriati, nel suo complesso, è un romanzo floscio, molliccio, ma il suo autore veste i panni dell’alfiere dell’equilibrismo, non scontenta nessuno, porta il vessillo della gauche fru-fru e ammicca ai sostenitori delle famiglie multicolor, come pol. corr. comanda. I suoi personaggi vivono nell’eterna indecisione dei bamboccioni di casa nostra, scelgono di non scegliere, non si assumono responsabilità, esistono in maniera ambivalente e polimorfa, optano per la comodità, e lo fanno trincerandosi dietro la maschera dei diversi, dei raminghi, degli errabondi inquieti. Vengono, vanno, ritornano – come le nuvole di De Andrè – si adagiano sui cuscini imbottiti dei loro canapè, pronti per una nuova, fittizia, rivoluzione da salotto. Lasciano i nonni contadini al meridione e si trasferiscono al nord, per laurearsi in luccicanti atenei e condurre una vita inamidata da consulenti in giacca e cravatta, ingessati come manichini di Zara, o emigrano all’estero per deragliare da una prestabilita vita binaria, per condurre un’esistenza fluida, forse perché, per dirla alla Woody Allen, questa può raddoppiare le tue chances al sabato sera.
Desiati manda avanti i due personaggi che, sotto le mentite spoglie di nomadi dell’esistenza, celano una lettura totalmente ideologizzata dal genderismo, che va ben oltre il giuoco dello scambio degli abiti e dei rossetti, presentando una narrazione calata unicamente nel tempo presente, che ambisce a lasciare il segno ma non ha i numeri per farlo. È destinata sul nascere a finire nel dimenticatoio perché l’autore punta tutte le sue chips avendo in mano una coppia di sedicenti anticonformisti e un tris di presunte trasgressioni, tenta l’all in senza rendersi conto che al tavolo delle lettere il suo full è debole, le presunte disobbedienze non bastano, laddove il campo letterario in cui l’autore anela a prendere posto è fatto di grottesca ordinarietà raccontata con un linguaggio misurato ed elegante, privo di quegli inutili orpelli che ne involgariscono la narrazione. Si prenda a mero titolo di esempio Le sere, in cui lo scrittore nederlandese Gerard Reve riesce a raccontare di una gioventù traviata in maniera amorale e ironica.Come prevedibile, avendo compiaciuto un po’ tutti gli attuali tipi umani à la page, il romanzo riceve un immediato radical chic spin, l’élite progressista lo endorsa sui giornali e sui social, il circolo di mosche che ronza attorno ai premi letterari lo premia con gli zuccherini, lo centrifuga con l’ammorbidente, lo carezza con guanti felpati, riservandogli melodiose parole d’entusiasmo. I suoi protagonisti vengono definiti “fuori dalle righe”, la storia qualificata come “sovversiva”. (Francesca Sabbatini)
Rileggere Dino Buzzati, a 50 anni dalla sua scomparsa (1972) a 66 anni appena. Buzzati (nella foto) fu un grande giornalista: per il “Corriere della Sera” scrisse pezzi memorabili in cui la cronaca diventava vita pulsante, la realtà si impastava con la narrativa immaginosa del vero. Fu, anche e soprattutto, un grande scrittore. Aveva una intelligenza sensibile, nervosa. Due i suoi libri “maggiori”, i due romanzi (video), anche se bellissimi sono molti dei suoi racconti. “Il Deserto dei Tartari” (1940) è un libro innovatore, strano. Vi si narra l’attesa interminabile di qualcosa, di un nemico, di un destino, del mistero, in una remota fortezza isolata su una montagna dove il giovane tenente Drogo sale credendo di trascorrervi poco tempo e invece…. Gli anni passano, il nemico non si vede ma chissà, bisogna vigilare, fare i turni di sentinella al tempo, alla vita…
“Un amore” (1963) è la storia di una passione piena, avvolgente e sconvolgente, l’ossessione di un uomo di mezza età per una giovane donna. Amore in caduta libera, invasivo, patetico, spesso penoso, comunque grande. Due libri diversissimi, un autore lucido, febbrile, di grande tempra.
Fu nel 1962, sessant'anni fa, che uscì quello che oggi risulta uno dei maggiori romanzi italiani di tutto il Novecento, "Il giardino dei Finzi-Contini (nell'immagine la prima edizione con il dipinto di Nicolas de Staël). Per ricrdare quel grande e intenso libro dedichiamo un "medaglione" alla sua protagonista ineffabile e affascinante, Micòl Finzi-Contini
Micòl Finzi-Contini, enigmatica e bella, indecifrabile e inespugnabile, è la protagonista di “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani, un romanzo sontuosamente inscenato su due fondali, uno temporale e l’altro geografico, fisico, reale e immaginario al tempo stesso. Il primo è quello della stagione torbida del fascismo e delle leggi razziali, in una Ferrara dove i ragazzi della buona borghesia ebraica vengono a poco a poco emarginati dalla discriminazione. L’altro scenario, centrale, è quello di Ferrara ma soprattutto del vasto, lussureggiante giardino degli aristocratici Finzi-Contini, nel quale vengono accolti, per partite di tennis, merende, frequentazioni sempre più intense, i giovani correligionari espulsi dai circoli cittadini per indegnità di razza. In quell’isola effimera, per poco felice, febbrile (in un autunno e in un inverno anche metaforici) si disegna l’amore irrequieto e intenso dell’Io narrante per la ragazza di casa, Micòl, bella di un biondo suo, di una sua impertinenza dolce. Lei gli vuole bene, molto bene, gli regala una amicizia profonda. Ma al goffo tentativo di assedio amoroso di lui, lei si richiude, dice che non si può, che loro due sono troppo simili, uguali, per sopraffarsi in un amore, perché l’amore “è roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce”. Lei sfugge, parte, ritorna, un po’ perdona l’insistenza di lui ma poi si chiude, dolorosamente punitiva. Lui ne soffre, come succede in tutti i grandi amori unilaterali o corrisposti in modo asimmetrico. Tralascio qui la nervatura della storia, le lunghe chiacchierate, le ricognizioni intime dentro il giardino immenso, le gelosie, il mistero del rapporto fra Micòl e il concreto giovanotto lombardo Giampi Malnate. Dico solo che Micòl è forse il personaggio femminile più complesso e affascinante di tutta la letteratura italiana del ‘900: sensibile, intelligente, capricciosa e misteriosa, malinconica: “il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga ‘le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui’, e il passato, ancora di più, ‘il caro, il dolce, il pio passato’ “. Il suo negarsi è forse una specie di sacrifico, a modo suo, perché il suo innamorato goffo avesse finalmente, più che l’amore impossibile per lei, la vita vera, completa, fuori dal giardino bellissimo e imprigionante, fuori dalla tragedia del nazifascismo che disperderà l'inconfondibile stile "finzicontinico" . All'io narrante - e a noi tutti lettori innamorati di Micòl - resterà nella retina del cuore un ultimo lampo dei suoi capelli biondi intravisti appena, poco prima della fine di tutto, attraverso il finestrino di un'automobile, nello spazio di pochi secondi.
M.F.
2022
Yasmina Reza, “Serge”, AdelphiLEGGI LA RECENSIONE
(m.f.) Di Abraham Yehoshua, scomparso il 14 giugno scorso all’età di 86 anni, abbiamo detto brevemente nel nostro ultimo scritto sul BLOG del nostro sito. Il grande scrittore israeliano andrebbe ora soprattutto letto e riletto, che è poi il modo migliore per tenere in vita, attraverso la sua opera, un autore. Personalmente ricordo un bell’incontro con Yehoshua a Lugano, il 9 maggio del 2016 (vedi foto). Davanti a seicento persone, nell’Aula Magna dell’USI, ebbi l’emozione di intervistare quel grande scrittore, di cui avevo letto e apprezzato tutti i romanzi. Ne nacque un colloquio fervido, con lui in forma smagliante e pronto a parlare, riflettere, spiegare e giudicare, davanti a un pubblico attentissimo. L’incontro fu registrato e una trascrizione dell’intervista fu poi pubblicata sul numero 2 del 2016 della rivista culturale Cenobio, per iniziativa del suo direttore Pietro Montorfani. Ritaglio qui un breve passaggio di quell’intervista, rimandando eventualmente per la forma integrale alla redazione di Cenobio (info@edizionicenobio.com.
Avevo posto a Yehoshua una domanda sulla sua capacità di immedesimarsi nei suoi personaggi come se egli stesso in qualche modo si reincarnasse in essi: parlando in quell’occasione del personaggio femminile di Noga (protagonista di quello che allora era il suo ultimo riomanzo, “La comparsa”) gli chiesi come facesse lui a entrare cosi profondamente nella psiche e negli umori di una donna. Ecco cosa mi rispose Yehoshua:
“Potrei citare un breve aneddoto che ha per protagonista il grande scrittore ebraico Isaac B. Singer. Alla sua nascita, la madre chiese se aveva dato alla luce un maschio o una femmina e le fu risposto che non era nato né un maschio né una femmina, bensì uno scrittore. Questo a significare che uno scrittore non è uomo, né donna, ma in qualche modo li contiene entrambi. Senza dimenticare che nel panorama della letteratura ci sono anche i cani e tutti gli altri animali… Qui stanno l’abilità e il miracolo dell’immedesimazione letteraria, che per sua natura non ha confini… Comunque quella di descrivere una donna, con tutte le complessità del suo animo e della sua intimità, è una grande sfida per uno scrittore maschio. Mi piace cogliere questa sfida…”.
Penso oggi, dopo aver riletto (quale omaggio alla memoria dello scrittore appena morto) il bellissimo “L’amante”, ai formidabili due personaggi femminili di Asya e di sua figlia Dafi: Yehoshua ha saputo anche lì, eccome, raccogliere quella grande sfida letteraria di entrare, da maschio, nel cuore profondo di una donna.
Dopo Amos Oz, scomparso 4 anni fa, se ne è andato ora anche Abraham Yehoshua, all'età di 86 anni. Della prodigiosa terna di grandi scrittori israeliani che per decenni hanno costituito la punta eccellente del profondo e stupefacente iceberg fecondo della narrativa israeliana, ora rimane in vita, quasi orfano dei due altri compagni di strada e di scrittura, David Grossman. Di Yehoshua andrebbe detto molto, moltissimo, per la sua complessità di narratore denso e accurato, che impasta le sue storie private dentro l'humus civile dell' Israele d'oggi (ma anche con affondi nella storia), di cui coglie la realtà piena e senza sconti ma soprattutto vivida, mobile, accesa, verissima. Ci limitiamo qui, per il momento, a qualche appunto. Yehoshua è stato troppe volte definito "scrittore della pace", quale intellettuale impegnato a fronte della ferita non suturata del dramma Israelo-palestinese. Ma ad essere grande non è tanto lo Yehoshua "politico", che pure ha espresso giudizi forti e mai banali (diremo nondimeno appena che, seppur critico più volte verso errori e limiti di vedute dei vari governi israeliani, non ha mai cessato di essere un difensore della causa israeliana di fondo, che è quella di avere il diritto di esistere contro chi da oltre 70 anni ne vuole la distruzione). Ma Yehoshua è soprattutto narratore di vite e di vita, suscitatore di esistenze vibranti, di tumulti sentimentali, di fallimenti privati affettivi e di eccentricità esistenziali, in uno scavo profondo e originale degli animi umani. Le sue storie profumano, cantano, sussurrano, suonano. E il battito della quotidianità e delle vite si iscrive dentro un tessuto civile realissimo, molto spesso in una co-presenza a specchio di una realtà israeliana e di altri scenari, per esempio europei (lo scrittore ha amato molto l'Europa, ha vissuto a Parigi, ha visitato più volte anche l'Italia). Come tutti gli autori, anche Yehoshua ha avuto una sua comprensibilissima discontinuità: oso dire per esempio che gli ultimi quattro suoi romanzi appaiono a mio giudizio un po' meno poderosi degli altri. Fra i suoi numerosi titoli indico in modo del tutto soggettivo quelli che a parere mio sono i più forti e solidi, e aggiungo un aggettivo: possenti. Eccoli: "L'amante", "Un divorzio tardivo", "La sposa liberata", "Il responsabile delle risorse umane", "Fuoco amico". Altri risultano forse sia più "difficili" ma anche sia gravati da qualche densità farraginosa in eccesso. Ne riparleremo.
Arte nelle pagine
Veniva pubblicato 60 anni fa, nel 1962, "Il giardino dei Finzi Contini", di Giorgio Bassani, uno dei grandi romanzi del Novecento italiano. Nella primissima edizione Giorgio Bassani volle inserire, a metà libro, fra pagina 88 e pagina 89, la riproduzione (nella nostra immagine) di una stampa di Giorgio Morandi, dal canto suo uno dei grandi artisti italiani del Novecento. Il titolo dell'incisione è "Campo da tennis" e l'opera evoca il campo da tennis del giardino in cui i giovani protagonisti nel corso di un autunno si scambiano colpi di racchetta, battute, turbamenti, risate, amori, prima che la bufera della guerra e delle deportazioni razziali spazzi via tutto."Il giardino dei Finzi-Contini" è una storia d’amore (incerta, asimmetrica, intensa, struggente) dentro il cerchio di un ampio e lussureggiante giardino esclusivo di sospesa salvezza e dentro il più ampio e drammatico cerchio dell’onda montante delle leggi razziali antiebraiche nell’Italia fascista. Siamo a Ferrara, fine anni ’30. Accanto all'Io narrante protagonista, studente ebreo di famiglia borghese, spicca la figura forte e affascinate e contraddittoria di Micòl, di "aristocratica" famiglia ebraica, giovane donna bella e ineffabile, che diffidava del futuro (che del resto sarebbe stato ben presto rovinoso) ma amava il presente e soprattutto il passato: “il caro, il dolce, il pio passato”.Brano di un dialogo da “Il giardino di Amelia”, di Marcela Serrano (Feltrinelli), uscito da pochi mesi:
“Quando penso a tutte le cene cui ho partecipato, a tutti i neuroni che ho logorato, a tutti gli sforzi per ascoltare chiacchiere di cui non mi importava un fico secco, sempre e solo per connettermi con gli altri, perché pensavo, in tutta onestà, che di questo si trattasse. Di essere connessi. Panzane! Delle gran panzane”.
“Bè, non è neanche il caso di vivere come gli eremiti, sarebbe utopistico”.
“Eppure imparo più cose sulla natura umana dai romanzi che dalle creature in carne e ossa. Credimi, posso scorgere la grandezza e le miserie, le luci e le ombre di ciascuno, l’ambiguità, quanto buoni e quanto cattivi possiamo essere. Insomma, là dentro incontro la vita”.
Bella riflessione, anche condivisibile A patto poi di saper uscire ogni tanto dai romanzi, rafforzati dalla conoscenza della vita là dentro acquisita, ed entrare nella vita vera, sperimentando, toccando la realtà.
(Immagine: Medardo Rosso (1858-1928) “Uomo in lettura”)
"L'unico consiglio che una persona può dare a un'altra riguardo la lettura è quello di non accettare consigli, di seguire i propri istinti, utilizzare i propri ragionamenti, arrivare alle proprie conclusioni". Così scrive Virginia Woolf (1882-1941, nella foto) in un libro, appena uscito in italiano (Virginia Woolf, "Il lettore comune", Elliot). Recensendo il libro, composto di articoli della Woolf pubblicati su giornali e riviste culturali, Annalena Benini su "Il Foglio " scrive fra l'altro: "Non c'è nei testi della Woolf solo la letteratura, ma la letteratura impastata con la vita, la satira, la storia, i pettegolezzi. E uno sguardo lungo, fatto di immaginazione e senso critico". Vien voglia di sfogliarlo presto.