“Nevicava. Una leggera, dolce neve senza vento, con un grande, pacifico silenzio che avvolgeva tutta la terra. Camminò e accelerò il passo fin quasi a correre ininterrotto, leggero e allegro nel cuore anche se un poco turbato… Il cavallo affrontò con impeto la salita mandando vapore dalle froge. La slitta scivolava nella luminosità di quel mattino del 31 dicembre e quando si fermarono davanti alla casa con il ramo di abete sopra l’uscio, sentirono il pianto di chi nasce”.
Mario Rigoni Stern, “L’anno della vittoria” (Einaudi), 1985 (anche in: Mario Rigoni Stern, "Trilogia dell'altipiano", Einaudi)
Illustrazione: Varlin (1900-1977), Paesaggio invernale a Bondo, Bregaglia
Il romanzo si situa subito dopo la fine della prima guerra mondiale e racconta una vittoria: non quella dei generali (dolorosamente scontata fra l’altro dalla povera gente) ma quella della ricostruzione della vita sulle macerie di una montagna bombardata, rovinata, ferita. Il romanzo è la storia del ragazzo Matteo e della sua famiglia, profuga ai piedi delle proprie colline d’altura quando queste sono dilaniate dalle bombe e dai combattimenti. Il ritorno al villaggio è doloroso, davanti a rovine, case distrutte, memorie violentate. Ma fra le macerie della sua casa Matteo ritrova una bambola di pezza e il mestolo per attingere l’acqua: due segni di una possibile rinascita nell’umiltà delle cose. La vita che rinasce è punteggiata di dolori e malinconia, ma anche di avvisaglie di gioia e di letizia interiori che a fatica si rifanno strada. Fra il gelo delle disgrazie, dei lutti, delle ferite dell’anima, balena la luce tremula della speranza. Dopo un Natale con il pianto nel cuore, lontani da casa, giunge un Natale ancora precario ma sotto il proprio tetto, con la Messa di mezzanotte e, all’osteria, la cioccolata fumante e i trepidi saluti. E poi, riecco la vita, in un’alba di San Silvestro piena di fiocchi e di odore di pane nuovo. Matteo è stato mandato dal papà con la slitta e il cavallo a chiamare il medico perché la mamma, incinta all’ultimo mese, ha le doglie. Si affrettano nella neve alta, lui e il dottore, verso casa. E quando sono quasi arrivati, dentro la pace silenziosa dei fiocchi odono il suono del miracolo che si ripete, quello del “pianto di chi nasce”. La vita.
"Dopo il piacere di possedere libri, nessun altro eguaglia quello di parlarne" (Charles Nodier, 1780-1844). Noi del Circolo dei libri siamo abbastanza d'accordo con lui, vero? Questa sua frase la trovo in epigrafe di un colto e delizioso volumetto edito e tradotto da Sellerio, opera di un bibliofilo, Jacques Bonnet, 74enne francese, editore, scrittore e traduttore: "I fantasmi delle biblioteche". Lì dentro c'è di tutto. Peschiamo a caso:
"Come e dove leggere?. Dovunque e in qualunque posizione. Ben lontano, in ogni caso, dalle raffinatezze di Guarino che, come riferisce Anthony Grafton, 'amava leggere in barca, col libro posato sulle ginocchia, così da poter gustare nello stesso tempo il piacere del testo e lo spettacolo dei campi e dei vigneti visti dall'acqua'. Leggo seduto, in piedi e anche mentre cammino, perché no? Ma l'ideale è leggere sdraiato: è come se quella posizione permettesse al testo di entrarmi dentro più facilmente. La lettura ha abbreviato i viaggi più interminabili, ha fatto sì che non mi accorgessi delle ore di attesa negli aeroporti e che sopportassi per decenni le riunioni lunghissime e inutili alle quali non potevo sottrarmi...". Che bel tipo, questo.
Immagine: Vilhelm Hammershoi (1864-1916)
Per Capodanno, facciamo un passo indietro e torniamo alle riflessioni sul passaggio da un anno all'altro di Giacomo Leopardi (1798-1837). Con lui andiamo sul sicuro. Nel suo "Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere" (in "Operette morali") Leopardi si sofferma sui propositi (e le illusioni) di ogni cambio d’anno: all'ottimismo del "passeggere" sul futuro risponde la cauta, quasi scettica speranza del venditore. Il Circolo dei libri, al termine di un anno difficile e all'alba di quello nuovo, vi presenta una sintesi e una riflessione su questi pensieri di Leopardi, che non fu soltanto grandissimo poeta ma anche un prosatore di altissimo intelletto.
“Almanacchi! Almanacchi nuovi! Lunari nuovi!”. E’ il grido che per Capodanno risuona all’angolo di una piazza in una città italiana non meglio precisata: lo va ripetendo un venditore di almanacchi per l’anno nuovo. La scena è raccontata da Giacomo Leopardi nel 1832 nel suo “Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggere”. Fra il “passeggere” (passante) e il venditore d’almanacchi si svolge un dialogo che sembra bonario e colloquiale ma gronda di dubbi filosofici ed evoca il desiderio di felicità che abita il cuore dell’uomo e che sembra non essere appagato mai del tutto. Le cose erano già così allora, le cose sono ancora così oggi. A ogni passaggio d’anno ci nutriamo di buoni propositi (che non manterremo quasi mai), facciamo qualche rapido bilancio (luci, ombre, ammaccature) ma soprattutto affidiamo all’anno nuovo la speranza (auguri, auguri!) che finalmente accada il bello e il buono (e se possibile il giusto) che nel profondo desideriamo. Lo sapeva bene Leopardi, il quale con il suo amaro pessimismo metafisico (che abita la sua grande opera poetica ma anche la sua prosa) conosceva questa rinnovata illusione che il bene finalmente arrivi davvero, con l’anno nuovo. Dunque, con il pretesto del lunario (almanacco) dell’anno che arriva, il passante interroga il venditore e gli chiede se lui desideri magari riavere, in quanto ad appagamenti e bene, qualche anno passato oppure se egli punti su quello nuovo. Il venditore ci pensa un po’ e dice che no, non vorrebbe riavere nessun anno. Entro nel vivo del dialogo di Leopardi:
Passante: Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passante: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore: Appunto.
Passante: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore: Speriamo”
Il passante acquista un almanacco e se ne va, il venditore riprende a gridare “almanacchi, almanacchi nuovi, lunari nuovi!” Resta nell’aria la persuasione del passante, il quale ha osservato che la felicità alla fine consiste nell’attesa di qualcosa che non si conosce, nella speranza in un futuro diverso e migliore rispetto al passato e al presente. Giacomo Leopardi, che toccava spesso il tasto delle speranze disilluse e delle vanità polverizzate, altre volte aveva sostenuto che la felicità non è tanto legata a qualcosa di reale che stiamo vivendo ora o che già abbiamo vissuto ma sta piuttosto nell’attesa, nella speranza di qualcosa di bello che ci immaginiamo ci possa accadere. Nel 1827, cinque anni prima di inventare il suo dialogo fra il venditore di almanacchi e il passante, ecco per esempio cosa scriveva nello “Zibaldone”: “Nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti”. Questa amarezza pessimista sembra però, nel “Dialogo” di cui ho tratto un assaggio, stemperata proprio dalla risposta finale dell’umile, concreto venditore di almanacchi il quale, sentito il passante cliente affermare che l’anno venturo porterà finalmente il bene che aspettiamo, si limita a una sola, cauta parola: “Speriamo”. Quello “speriamo” risuoni come un sobrio augurio ai lettori del Circolo dei libri per l’anno appena cominciato.
Michele Fazioli
“Quando torno alla mia più lontana fanciullezza per ricercarvi i primi segni di quel che poi son diventato, ritrovo nella memoria l’avidità con la quale chiedevo e ascoltavo ogni sorta di racconti, la gioia dei primi libri di romanzi e di storie che mi furono messi o mi capitarono tra le mani, l’affetto pel libro stesso nella sua materialità, sicché a sei e sette anni non gustavo maggior piacere che l’entrare, accompagnato da mia madre, in una bottega di libraio, guardare rapito i volumi schierati nelle scansie, seguire trepidante quelli che il libraio porgeva sul banco per la scelta e recare a casa i nuovi preziosi acquisti, dei quali perfino l’odore di carta stampata mi dava una dolce voluttà. Mia madre aveva serbato amore ai libri da lei stessa letti nell’adolescenza…”
Benedetto Croce (1866-1952), da “Soliloquio” (Adelphi, 2022).
Croce, uno dei massimi filosofi europei fra ‘800 e ‘900, amò visceralmente i libri prima di farne il pasto decisivo della propria vita intellettuale di filosofo, appunto, storico, scrittore, politico. Bella questa sua memoria del proprio amore infantile e adolescenziale per la meraviglia del libro. Tanto più emozionante in quanto quella madre così trepida nell’istillare nel figliolo la febbre per i libri egli la perse prestissimo, a 17 anni appena, quando accadde la tremenda disgrazia del terremoto di Casamicciola, sull’isola di Ischia dove la famiglia Croce , napoletana, stava villeggiando. Perirono il papà, la mamma e la sorella di Benedetto, che rimase sepolto tra le macerie, ferito, ma fu salvato anche se portò sempre su di sé le conseguenze fisiche, per non dire quelle psicologiche, di quella sciagura. L’altro fratello si salvò perché poco prima del sisma aveva lasciato l’isola per un impegno. I due orfani furono poi affidati a due zii materni. La mamma che aveva insufflato in Benedetto l’amore per i libri era morta prestissimo ma per tutta la vita egli si nutrì a quel soffio.
Illustrazione: Harold N.Anderson, U.S.A. (1894-1973): ragazzo che legge
Rileggendo John Steinbeck (nato nel 1902, premio Nobel nel 1962, morto nel 1968) ecco una scaglia che dice in fulminante sintesi quanto il pregiudizio blocchi lo sguardo umano sulle cose, nel senso della micidiale pretesa che suona più o meno così: “Se la realtà non coincide con quanto penso io, tanto peggio per la realtà”. In “”La valle dell’Eden” (recentissima nuova traduzione italiana di Bompiani) ecco una pepita d’oro:
“ Con te posso parlare. Tu sei uno di quei rari personaggi capaci di distinguere le percezioni dai preconcetti. Tu vedi quello che c’è, mentre la maggior parte delle persone vede quello che si aspetta”.
Perfetto.
2022
Jacques Chessex, “Perdonami madre”, Armando Dadò editoreLEGGI LA RECENSIONE
2022
"Avevo letto, voltato le pagine, divorato carta; ah, e là dietro, dietro l'infame muro di libri c'era stata la vita, cuori erano bruciati, passioni si erano scatenate, sangue e vino erano corsi, erano accaduti l'amore e il delitto".
Herman Hesse, L'uomo con molti libri
La vita senza i libri ha meno gusto. Ma non si può vivere soltanto nei libri. E' proprio perché si vive davvero la vita, che la si può ritrovare nei libri, con rintocchi, malinconie, sorprese, quasi come se essa riaccadesse, rivelasse nuove profondità da scoprire.
(Illustrazione: Henri Fantin-Latour, "La lettura", 1877)
Torniamo su una riflessione di Tzvetan Todorov (da "La letteratura in pericolo", Garzanti) perché è centratissima nel dire lo scollamento fra il piacere vasto, complesso e multiforme della lettura e l'elitario restringimento di quella che per la critica militante o di nicchia è l'area della "sola e vera letteratura". Ecco il pensiero:
"Ormai si scava un solco profondo tra letteratura di massa - produzione popolare a stretto contatto con la vita quotidiana dei suoi lettori - e letteratura d'élite, letta dagli esperti - critici, insegnanti, scrittori - che mostrano interesse solo per i virtuosismi dei suoi creatori. Da un lato il successo commerciale, dall'altro le autentiche qualità artistiche. Tutto avviene come se l'incompatibilità tra loro fosse naturale, tanto che l'accoglienza favorevole riservata a un libro da un gran numero di lettori diventa il segno del suo fallimento sul piano artistico e causa il disprezzo o il silenzio della critica...Se si ammette che un'opera parli del mondo, si pretenderà in ogni caso che elimini "i buoni sentimenti' e ci riveli l'orrore irrimediabile della vita, senza il quale rischia di apparire 'insopportabilmente sempliciotta' o, peggio ancora, di avvicinarsi alla letteratura 'popolare', la cui reputazione dipende più dal giudizio dei lettori che da quello dei critici".
Todorov coglie nel segno.La separazione in due emisferi ben distinti (letteratura alta, colta, per stile, struttura e missione, e letteratura bassa, popolare, di intrattenimento) è una trappola intellettualistica. Naturalmente ognuno sa bene la differenza fra il feuilleton semplicistico e arruffato e il grande romanzo. Ma esiste un grande malinteso circa la presunta superiorità dei libri sofferti, cattivi, complessi, magari con compito ideologico da una parte, e quelli felicemente narrativi, persino piacevoli, appassionanti dall'altra. Dopo tutto Jane Austen, Dickens, Balzac, Tolstoj e Cecov furono scrittori popolari, alcuni addirittura seriali. E anche tutta l'inquietudine filosofica e le dispute intellettuali, per dire, fra Naphta e Settembrini nella "Montagna incantata" di Thomas Mann non sarebbero nulla se non fossero accolte nella tensione narrativa di una trama, di una storia intensa di persone, sentimenti, "messa in scena" narrativa. .Alla fine esistono solo i buoni libri e i cattivi libri, non importa di che genere.
Un consiglio per tutti coloro che amano leggere , e in particolare per gli amici dei nostri Circoli di lettura: leggete, non appena potete, con continuità e metodo, non a spizzichi e a intermittenze troppo larghe. Un romanzo è come un concerto: andrebbe gustato nel modo più unitario e continuato possibile. La pensava così anche il grande Philip Roth (1933-2018). Parlando di un personaggio (uno scrittore celebre), il quale, dopo aver sostato un poco, la sera, a chiacchierare davanti al camino sorseggiando un goccio di cognac, si alza per ritirarsi, Roth scrive:
“… disse che doveva ancora dedicarsi alla propria lettura serale. Non rendeva giustizia a uno scrittore se non lo leggeva per qualche giorno consecutivamente e per almeno tre ore di fila. Altrimenti, nonostante le note e le sottolineature, perdeva i contatti con la vita interiore del libro, e tanto sarebbe valso non averlo neppure cominciato…”
Philip Roth, “Lo scrittore fantasma”, Einaudi
Forse tre ore al giorno sono troppe, soprattutto per chi ha altro e molto da fare. Ma il principio del consiglio di Roth non fa una grinza. Mettiamola così: leggete ogni giorno e cercate di leggere ogni volta un buon numero di pagine.
Gustave Flaubert scriveva romanzi e sapeva bene che se nei romanzi c’è la vita, la vita è ancora qualcosa di diverso dai romanzi. Scrive, di Madame Bovary:
“….. Essa aveva creduto di sentire amore; ma la felicità che doveva nascere da questo amore non era venuta; dunque s’era sbagliata, pensava. E Emma cercava di sapere che cosa si intendesse di preciso nella vita, con le parole felicità, passione ed ebbrezza, che le erano sembrate così belle nei libri”.
Emma Bovary aveva creduto che la felicità intravista nei romanzi sentimentali divorati da ragazza potesse accaderle nella vita vera, nell’innamoramento, nel compimento coniugale. Non sapeva che i libri dicono, o cercano di dire, la vita, ma che la vita accade. Flaubert lo sapeva.