Circolo dei Libri

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14gennaio
2022

Jonathan Franzen

Einaudi

Com'è bravo Jonathan Franzen. Che bella razza di scrittura. E com'è eccessivo, talvolta, Jonathan Franzen, eccellente e secchione come certi primi della classe che per bravura rischiano di strafare e di essere puntuti. Eppure anche in questo suo ultimo romanzo Franzen, quando è in stato di grazia, scrive da dio, usa la tastiera del PC come uno strumento musicale ispirato dall'intelligenza e dalla geniale percezione dei sommovimenti interiori che perturbano l'ambito di cui egli meglio sa scrivere: la famiglia, la famiglia borghese americana, meglio ancora se retrodatata come in questo caso agli anni Sessanta e dintorni. Chi ama la lettura dei grandi romanzi densi e ben fatti si tuffi tranquillo in "Crossroads", troverà pane per i suoi denti da lettore. Poi, come già accadde per altri romanzi di Franzen, alla fine verrebbe voglia di dirgli, osando e potendo, che avrebbe fatto bene a tagliare qualche gruppo di pagine, qua e là, ad affinare la materia grassa e sontuosa della massa del suo libro. Ma la narrazione lenta e dettagliata delle piccole crepe, dei sensi di colpa e delle voglie trasgressive, dei palpiti di libertà e dipendenza in seno alla famiglia di Russ, pastore prestante della middle class americana e di sua moglie Marion e dei figli, è superba. Franzen mette in scena la quotidianità sottilmente tormentata di quella famiglia con una bravura di scrittura e intuizione da rendere quasi doverosa la lettura del suo romanzo per chi davvero ama i libri forti. Russ e Marion Hildebrandt costituiscono una coppia così perfetta da aver quasi bisogno di rompersi un po'. La religiosa serenità virtuosa, brodo di cottura in cui la bella famiglia galleggia, rende per forza insofferenti gli intelligenti e problematici figli: Clem, Becky, Percy e il piccolo Judson. La piccola crepa iniziale che scuote la fervida ma anche tranquilla vita parrocchiale di provincia è quella di una gelosia fra educatori: il pastore Russs, volonteroso e buonista, quando deve condurre la pastorale giovanile con un gruppo di adolescenti inquieti, tentati dal fumo, dalla musica rock e dagli approcci sentimentali, risulta paternalista e ingessato. Meglio di lui fa il suo assistente Rick Ambrose, altro pastore, più giovane e smagato, carismatico e furbino, che conquista ragazze e ragazzi e taglia fuori Russ. Il quale cova la sua frustrazione e si rifa puntando gli occhi su una giovane vedova piacente, anche perché la moglie Marion, che fu bella e desiderabile, si è nel frattempo come congelata in una scontata noiosità coniugale: "Marion era diventata invisibile a suo marito, invisibile anche ai suoi figli, resa anonima dalla densa, tiepida nube di mammità attraverso cui la percepivano". La trama poi si addensa, con una divagazione geografica intrigante ma forse troppo trascinata nel territorio della riserva indiana dei Navajos, dove la comunità parrocchiale di Russ va a fare delle settimane di sostegno caritativo ai discendenti straniti e diffidenti di quella fiera stirpe di pellerosse. Franzen racconta le tensioni di piccola umanità di una realtà borghese della provincia americana religiosa e fruga nei segreti non confessati delle persone, e lo fa benissimo. A ciò aggiunge affondi di riflessione sulle consuete, minime ma anche enormi domande della vita sulla vita, sull'ipotesi di un Dio. E mette in luce i dilemmi e le ambiguità della dissonanza fra la vera tensione indotta dal senso religioso insito nel cuore umano e l'appartenenza religiosa sociologica, associazionistica, con tutti i personalismi di potere e le manipolazioni psicologiche. Poche, secche ed efficacissime le pennellate di ambiente e natura, con fulminanti annotazioni di luci, scorci, odori. Gli interni sono realistici, spesso sciatti, angusti. L'impressione finale è quella di un grande romanzo. Che poteva essere un po' limato.