Joshua Ferris
Neri Pozza
I maschi di oggi vivono spesso in modo più pasticciato e complicato di un tempo, a quanto si dice, i loro rapporti con le donne. Sarebbe in corso una specie di mutazione antropologica, un riassestamento travagliato di rapporti di forza consci e inconsci. A raccontare i pasticci di certi uomini con le loro donne (mogli, fidanzate, compagne, ex, eccetera) è Joshua Ferris, scrittore statunitense che si era affermato, anche per noi lettori di lingua italiana, con il romanzo "Non conosco il tuo nome" (Neri Pozza) cui era seguito "Svegliamoci pure ma a un'ora decente" (Neri Pozza). Stavolta, con questo "Invito a cena", Ferris si cimenta con l'arte difficile - e anche raramente ben risolta - dei racconti, delle storie brevi. Si sa che certi romanzieri allungano il brodo dei loro libri quando basterebbe chiudere molto prima, tagliare qua e là e trasformare l'opera in un racconto, che risulterebbe più asciutto, più godibile. Ma ci sono anche scrittori di racconti che si fermano troppo presto e lasciano come incompiuto lo slancio narrativo che farebbe presagire quasi una specie di romanzo, che però non arriva. In entrambi i casi, assistiamo a prove non riuscite. Poi per fortuna invece accade che esistano grandi autori di racconti, i quali sanno dare alle loro storie la misura compatta e compiuta, perfetta. Il più grande di tutti resta, a mio parere, Anton Cechov (il quale, forse proprio per questo, produsse più di un centinaio di racconti, oltre al teatro, ma non scrisse mai un romanzo anche se certi suoi lunghi racconti hanno la forza piena di un romanzo breve, ecco). Ma ce ne sono altri: mi limito a citare l'Hemingway dei "49 racconti" e altri due americani, Sherwood Anderson e Raymond Carver. Ecco qui ora Joshua Ferris a inserirsi con merito (di cui aspettiamo conferme in futuro) nella lista. E lo fa raccontando proprio, come si diceva, di taluni goffi e sofferti rapporti di maschi con le donne, di certe complicanze loro, di certe paranoie. Di certe incomunicabilità, fra tenerezza e ironia, con risvolti anche di tristezza per impotenza affettiva. La sonda dello "studio umano" di Ferris penetra nei segreti degli animi, coglie al volo frasi, movimenti, umori, e ci restituisce la fatica dei rapporti sentimentali e anche dei rapporti con sé stessi. Il linguaggio è attento, preciso, i dialoghi lucidi, le percezioni psicologiche acute. Ma c'è anche tanta stoffa da "scrittura americana", in presa diretta, svelta, con tocchi rapidi di ambientazioni. Come questa descrizione della fine quotidiana, feriale, dell'orario di lavoro negli uffici, verso sera, quando una umanità rinserrata nelle stanze per otto ore torna a respirare e ad evadere nel luminoso crepuscolo della città: "Se ne vanno. Un esodo. Fuori dagli ascensori, in strada. Nella luce che svanisce del tiepido sole del Midwest. A prendere il primo respiro della giornata. Grazie a Dio è finita. Accendono sigarette, allentano cravatte. Si raggruppano agli incroci per aspettare il verde. Le donne si rimettono le scarpe da ginnastica. Gli uomini senza mogli si fermano nei Burger King e nei Popeye's Fried Chicken per pasti discutibili da consumare tenendoli sulle ginocchia durante il viaggio in espresso verso casa. Se non prendono quello delle 18 e12 sono costretti a ripiegare sul locale e a fermarsi a tutte le stazioni: improponibile. Le ore serali sono materia strettamente personale e molto legata al tempo: sono irrequieti e attraversano con il rosso, schivano i passanti e sfrecciano verso le loro destinazioni nella condizione patologica dello "sbrigati-a-tornare-a-casa".
In questo libro di racconti viviamo undici storie intessute di commozione, comicità, malinconia.
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