José Saramago
Feltrinelli
Facciamo così: le ultime nove righe (della edizione italiana) del romanzo "La vedova" di Josè Saramago il lettore, se vuole, le potrà annullare: come se non fossero state scritte. L'autore invece le ha scritte, volendo dare un colpo di vento improvviso e impetuoso alla sua storia. Ma i libri, si sa, li scrivono gli autori ma poi appartengono ai lettori. E ognuno quindi, se non se la sente di seguire le ultime nove righe (che risultano coì spiazzanti da togliere il fiato) si fermi a quelle in cui Maria Leonor, la vedova poco allegra (ma talvolta desiderosa) rinuncia a cupi propositi e decide di affidarsi alla pulsione preziosa della vita. A contare, di questo primo romanzo del venticinquenne José Saramago (nato 100 anni fa, morto nel 2010) non è tanto il finale quanto invece la forza narrativa dell'intera storia, in un connubio fra passioni umanissime e pulsanti e moralismo frenante sullo fondo di una natura sontuosa, cosmica, avvolgente. Saramago, portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998, fu autore di grandi romanzi memorabili. Ma qui per la prima volta viene tradotto in italiano da Adelphi questo suo primissimo romanzo, uscito nel 1947, e che allora in Portogallo non ebbe molto successo. Eppure, leggendolo, si traggono due giudizi immediati. Il primo è che si capisce bene che lo scrittore sta iniziando un suo percorso narrativo e per il momento si attiene alla struttura tradizionale di romanzo, quando poi invece si scoprirà negli altri più maturi libri tutta la forza dell'allegoria, dell'allusione simbolica, della potenza immaginativa e del graffio civile. Il secondo giudizio è che subito ci si trova già di fronte a un talento sicuro e originale di scrittura che con grande forza sa risvegliare voci interiori e moti d'animo, confessabili o meno, dalle donne e dagli uomini e voci ancestrali dalla terra. Siamo nel Portogallo rurale, in un tempo in cui non ci sono ancora automobili ma già sbuffa il treno a vapore. In una grande tenuta di campagna (vaste terre, padroni, servitù e contadini) muore il padrone, ancora giovane, lasciando vedova con due bambini la piacente e affranta Maria Leonor. Su tutta la tenuta cala la cappa del lutto più cupo. Maria Leonor, smarrita e sofferente, cerca di tener stretta la voglia di vivere con i denti, pensando soprattutto al bene dei suoi bambini, così desiderosi di vita piena e chiara. Poi però succede che Maria Leonor comincia a percepire, con antenne femminili e misteriose che lei stessa non sa di possedere, il profumo di una possibile sensualità, di vaghe linfe di inquietudine che entrano in vena. Affacciata al balcone nelle calde notti del sud sente odori di fieno, di nettari di fiori, di vento torpido. Spia da lontano, intrigata, i maneggi amorosi di un giovanotto contadino e di una giovane serva. Nella sua magione appaiono due personaggi maschili, due signori entrambi medici ma diversi tra loro, che intercettano il turbamento di lei e altro glie ne procurano, magari solo per allusioni, gesti goffi e bruschi. Ma a vigilare come una rigida sentinella di morale sta l'enigmatica figura della governante - domestica di sempre, Benedita, la quale, servendo la padrona cui è fedelissima, tuttavia non le permette nessuno sgarro alla luttuosa moralità richiesta dalle circostanze. Benedita è il simbolo incarnato del moralismo retrivo, forse potrebbe persino essere una parte inconscia e impaurita di Maria Leonor stessa. Questo duello silenzioso fra desiderio sensuale e naturale e barriere moralistiche si iscrive in una natura che è sensuale essa stessa, rinascendo con rigoglio primaverile e poi con possente respiro estivo quasi come un cuore misterioso e segreto di vita cosmica che sempre batte, nella sensualità della terra divampata dopo il gelo. In mezzo, ridono, si muovono, giocano, sognano, esplorano e crescono i bambini, vita candida non ancora intaccata dalle costrizioni.
- Post successivo
Perdonami madre
Jacques Chessex
Armando Dadò editore - Post precedente
L'amore in un clima freddo
Adelphi