Sara Catella
Casagrande
È un monologo di dolore indignato e accorato quello che Caterina Capra, levatrice di Corzòneso, nella valle di Blenio del Canton Ticino, anno 1912, rivolge al prete don Antonio, a letto paralizzato. Lui non parla, non vede, muove talora appena gli occhi per mostrare forse d'aver capito. E allora Caterina, che viene mandata dal dottore a curare l'infermo e a fargli le iniezioni, gliele canta, le sue filippiche aspre ma anche speranzose, di donna che parla di donne. Per una volta si rovescia il ruolo consueto, giacché di solito erano i preti a predicare dal pulpito e la gente stava ad ascoltare. Adesso parla lei, e il prevosto deve ascoltare. Caterina è un fiume in piena, perché sa di cosa parla, lei che sta sgravando le donne della valle, perlopiù poverissime, sfiancate da gravidanze in serie, fino a dodici, a diciotto volte: poi molti fantolini muoiono subito, o appena più tardi, la morte entra volentieri in quelle case povere. Caterina intuisce anche la prepotenza maschile: "Io dico, don Antonio, voi dovete spiegare agli uomini che Dio non gli ordina mica di fare certe cose come le bestie!". Sara Catella, diplomata in letteratura, bleinese residente oggi a Berna, curiosando fra gli scatti dell'ormai famoso (in Ticino) fotografo ambulante Roberto Donetta, che a cavallo fra "˜800 e "˜900 ha fissato sulle lastre migliaia di volti giovani e vecchi, vivi e morti, si è ispirata a una di quelle figure vere per inventare la sua levatrice accorata. La quale, avendo visto molto, racconta molto: donne ingravidate e poi sgravate e subito via a faticare duro nei campi perché in quel tempo la maggior parte degli uomini forti ma poveri emigravano a Londra e a Parigi, alcuni erano migranti stagionali, partivano e tornavano e ad ogni ritorno seminavano un figlio nella pancia della moglie. E ci sono le ragazze messe incinte da mascalzoni che se ne fuggono, e covano il loro dramma isolate, come appestate, e spesso tentano di liberarsi da quel grumo di vita scoccata. C'è ignoranza, allora, sulle cose riproduttive, sul sesso. E c'è pregiudizio. Persino il sangue mestruale terrorizza le ragazzine: c'è del resto parecchio sangue di donne, in questo libro: sangue mestruale, appunto, sangue di parti dolorosi in case anguste, sangue di aborti capitati o maldestramente procurati. Lo sfogo parlato di Caterina è amaro, spesso sconsolato. Si potrebbe dire che l'autrice Sara Catella rilancia all'indietro, oltre cento anni fa, una voce di femminismo avanti lettera. La scrittrice assume a ritroso la propria responsabilità femminile di giudizio e non nasconde di essere di parte, dalla parte delle donne. Caterina poi mantiene anche la sua fede religiosa (allora la fede, con tutti i suoi moralismi del contesto del tempo, e con certa sessuofobia, era consolazione e speranza). Anzi, Caterina sussurra al prete infermo che ci sono donne che vorrebbero venire a trovarlo per tentare di parlargli, confessarsi, chiedere granelli di speranza. Lei, Caterina, a un certo punto dice di preferire saltare i passaggi complicati fra preti malati e pastoie rituali e parlare direttamente al Padreterno"…. Questo romanzo molto breve (o racconto lungo) ha la sua coraggiosa "faziosità" morale e sociale (ma si aggancia a storie vere, forse eclissandone altre, pure vere, di maggiore pace sentimentale e morale). E ha, stilisticamente, il coraggio di impastare un italiano colloquiale ed emotivo con vene copiose di dialetto locale, in un mix linguistico intrigante. Iniettare suono di dialetto lombardo (qui quello della valle di Blenio) nella lingua italiana è operazione difficile, spigolosa (altra cosa è l'impasto dei dialetti centro italiani e merIdionali, più in sintonia musicale con l'italiano). Ma si può tentare, e Catella ha tentato, come aveva tentato anche la scrittrice Laura Pariani in almeno un suo romanzo (e Pariani firma una breve e incoraggiante prefazione al libro di Catella). In postfazione invece lo studioso Matteo Ferrari analizza proprio l'impasto linguistico osato ma anche simpatico di Sara Catella. Forse qua e là qualche innesto di dialetto risulta eccessivo, un po' fuori posto. Ma spesso invece i brandelli dialettali aspri e diretti speziano la prosa italiana di Catella e ne fanno una complessità espressiva sincera, disinibita, confusa ed emozionata, da donna che soffre e si arrabbia, e scaglia domande sulla faccia del prete paralizzato e forse anche più su"… Sarà da tenere d'occhio in altre prove, questa fresca narratrice al suo esordio.
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