Paolo Di Stefano
Bompiani
« Noi » è un romanzo potente e intenso, una tremenda e intenerita storia familiare autobiografica. È un fiume carsico che dal sottoterra della memoria infantile e giovanile ( e di quella indagata negli altri) sbuca alla foce del presente e cerca di pacificare lo struggimento, il peso, le ferite, la riluttanza e l'amore dei nodi familiari. È il bilancio sofferto dell'appartenenza (non scelta ma data dalla nascita) a una filiera parentale ed è anche un regolamento di conti consci e inconsci, una fame di chiarezza, una voglia di pulizia morale, di quieta tregua con chi non è più fra noi, ma soltanto dopo aver smistato le carte della verità e dei sentimenti vissuti. Paolo Di Stefano non fa sconti all'inesorabile rapporto fra la narrazione e la verità. Racconta la storia vera della sua famiglia vera, con nomi veri e fatti veri, al costo di asprezze dolorose che si percepiscono non soltanto nella scrittura ma anche sulla pelle vera dello scrittore. Eppure alla fine della lettura del romanzo resta aperto il solito enigma affascinante della "invenzione della verità" che appartiene ai diritti ineffabili della narrativa. Anche se tutto è vero, ci si chiede, questo vero è assoluto o è filtrato dalla percezione soggettiva di chi racconta? L'esercizio della memoria, si sa, è ambiguo e spesso fallace, la memoria ritaglia spazi e nasconde buchi, censura e dilata, ha fissazioni ossessive e amnesie. Al netto di questi enigmi, "Noi" è il romanzo (un grande romanzo) della vita familiare vera di Paolo Di Stefano. Il quale se ne assume la responsabilità, di fronte ai familiari ancora vivi e di fronte a quelli scomparsi. "Noi" dopo l'avvio di assestamento, ti entra a poco a poco nelle vene: grazie alla scrittura forte, minuziosa, stilisticamente accurata e rigorosa ma al tempo stesso accalorata ed emotiva, il lettore si fa prendere dal ritmo sontuoso e nervoso di una narrazione che oscilla in continuazione, altalenante, fra spazi e tempi. C'è innanzitutto l'altalena fra sud e nord, fra la siciliana Avola post-contadina e la Lombardia e poi il Ticino. Ad Avola ci sono le radici, ci sono gli avi, c'è l'autoritario e intrattabile nonno (il "femminaro" prepotente, duro e sprezzante con moglie e figlio) e c'è quel suo figlio (che diventerà il padre del narratore) il quale fatica a liberarsi dal miscuglio di repulsione e dipendenza nei confronti del brutale genitore (nel futuro del quale si disegnerà tuttavia una inattesa tenerezza) e si arrabatterà fra amori non corrisposti e studi difficoltosi. E c'è la migrazione-fuga a nord, a Milano e poi nella Svizzera italiana, dove quel figlio-padre diventerà professore di latino al liceo di Lugano e porterà con sé la famiglia, compreso il piccolo Paolo che da grande oggi ci racconta tutto e non ci nasconde nulla. L'altalena fra il sud e il nord oscillerà per tutta la vita del padre e dei suoi familiari, sempre su e giù, giù e su, in lunghissimi viaggi stipati tutti dentro un'automobile, tra fughe e nostalgia. Poi c'è l'altalena fra il passato e il presente, ovvero l'onda della memoria antica che continuamente si rifrange sulla sponda dell'oggi mentre l'oggi a sua volta ostinatamente cerca e ricerca i grumi del passato. E infine c'è l'altalena giocosa dentro le filastrocche di un bambino rimasto per sempre bambino perché morto a cinque anni, un fratellino di Paolo, Claudio, la cui vita fu stroncata da una leucemia fulminante: e allora, sull'altalena "dell'aldiquà dell'aldilà" il remoto bambino scandisce pensieri, giochi di parole, enigmi, scaglie di ricordi e struggimenti all'orecchio del fratello Paolo, il quale oggi nel profondo di sé risente di qualche oscuro senso di colpa perché lui a quel fratellino (del quale era maggiore di sei anni) aveva fatto qualche dispetto. La voce del piccolo Claudio risuona lungo tutto il romanzo con piccole strofe che echeggiano da un mistero inconoscibile e sono colorate in rosso, come le macchioline che la leucemia aveva distribuito sulla pelle del ragazzino malato: davvero la voce di Claudio incide non soltanto il bianco delle pagine ma anche la vita stessa di Paolo. Nel grande spazio di centinaia di pagine si avviluppano storie, fatti, persone e anni e grovigli di cuori e coscienze in una febbrile epopea di sentimenti senza sentimentalismi. Tutto corre avanti e indietro, la vocina di Claudio dal suo "altrove", i rapporti difficili e complessi con la figura del papà (così sfortunato e tenace, orgoglioso e decisionista nel suo lungo viaggio far sud e nord, fra ossessioni e dolore) e poi la madre, ancora viva, con il suo folto fieno di memoria in cascina, e i fratelli, gli amori, le donne, i figli, gli amici, Avola e Lugano, infanzia e giovinezza a Viganello. Al termine di questo pellegrinaggio di memoria e turbamento intimo del Paolo narrante 65enne si coglie quasi una quieta, indolenzita pacificazione, una avvisaglia di serenità per aver potuto dire, con la cattedrale sofferta e maestosa delle parole di un romanzo, il proprio cruccio irrisolto ma anche la sterminata riserva di affetto per la propria storia familiare. Perché questa narrazione, urticante e tenera, spietata e compassionevole, attesta che Paolo Di Stefano ha speso 600 pagine per dire i groppi e i patimenti ma anche tutto il suo problematico ma indiscusso amore per la propria famiglia. Quella in cui ha le radici ed è nato e cresciuto, ma anche quella di oggi, la quale traspare con persone e voci vive dentro il presente: e salvando il presente con complici allegrie, salva anche il passato.
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