Circolo dei Libri

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13luglio
2018

Guido Calgari

Armando Dadò editore

Pubblicati nel 1933, riediti nel 1968 e poi spariti, riecco ora finalmente, per la bella iniziativa dell'editore Armando Dadò, i racconti di Guido Calgari, con una introduzione della studiosa Nelly Valsangiacomo. Sono storie della montagna ticinese (Leventina. Blenio), di fatica contadina, di emigrazione, stenti, disgrazie, amarezza; e affetti, malinconie, strappi di separazione, lontananze, sacrifici. Guido Calgari (1905-1969), che fu professore di letteratura italiana al Politecnico federale di Zurigo e influente intellettuale svizzero italiano, ebbe il merito di anticipare di quasi quarant'anni l'epica narrativa dell'emigrazione povera che Plinio Martini riprenderà, con diversa soluzione espressiva e in diversa stagione, nel suo romanzo "Il fondo del sacco"(1970). Calgari scrive negli anni '30 e risente degli stilemi del suo tempo (con un certo debito verso il realismo e il verismo di Giovanni Verga). Eppure anticipa in modo originale un calco linguistico diversificato, con innesti secchi di dialetto nostro e con cadenze espressive mutuate dalla parlata locale. E questo prima che alcuni grandi nomi della narrativa italiana cominciassero a farlo nella loro dimensione (Pavese, Vittorini, Cassola, Fenoglio e altri che seguiranno). Le storie di Calgari sono sostanzialmente tristi: lo scrittore prende le distanze dalla visione un poco idilliaca che Giuseppe Zoppi ha della vita di montagna e spreme invece, di quella vita, tutta la linfa di dolore, stenti,distacchii, disgrazie della povertà e del destino. Anche lui sembrerebbe indulgere qua e là alla contemplazione paesaggistica diciamo pittoresca. Ma il suo paesaggio possiede un'anima, quasi una soggettiva, misteriosa sensibilità: ("S'annunciava sulla valle un dolce crepuscolo e la valle stessa prendeva un colore violaceo che la faceva sembrare più silenziosa. Forse è sempre così, perché la valle ha sempre un'aria estatica, come se attendesse qualcuno o qualche cosa. Che non arriva mai"). E quando descrive i paesini di case di legno arroccate come un gregge dietro la loro chiesina, subito passa alla realtà dei segreti aspri nascosti nella penombra di quelle abitazioni. Alcuni racconti sono come delle bozze brevi di possibili romanzi, di grande forza narrativa. Come "Maison Pedrini frères, Lyon", che racconta la storia una emigrazione familiare fra speranze e rovesci da Osco Vigera in Francia, con un suo epilogo urbano, lontano, solitario, drammatico. Perfetto, nella sua struttura intensa, commovente e amarissima, il racconto "Il bambino". Protaginista è la Sciònta, ragazza bruttignaccola, appartata, sensibile, che sui monti gli uomini deridono e spesso umiliano. Ma anche lei conosce il suo goffo amore, cui si attacca con fedele passione. Resta incinta, il suo uomo si impaurisce e si dà da fare per partire emigrante: "E' vero, Berto, che te ne vai?" "Scionta, non è ancora certo". "No, non me lo vuoi dire, ma è certo"…e mi lasci così". Nel suo povero volto gli occhi non avevano più stupidità, anzi brillavano supplichevoli: era la maternità già avanzata della ragazza che dava loro un'espressione di accorata tenerezza. La Scionta si sentiva vinta: aveva amato, amava, aveva accettato la sua vergogna, pensava che lui l'avrebbe aiutata a lavorare per quel bambino concepito nell'ebbrezza di Ghiariva"… E ora egli se ne andava, come il maschiaccio egoista che fugge al proprio dovere, se ne andava forse per sempre"…". Viene ogni tanto, leggendo questi racconti,un groppo in gola: segno che essi non hanno cessato di far perdurare la loro voce espressiva . Chi ha radici di montagna e di migrazioni familiari accosterà il proprio DNA di memorie a queste prose in cui un realismo accorato racconta storie amare e lascia tuttavia trapelare la dolcezza di alcune forti fedeltà familiari e una resistenza di sentimenti.