
In un angolo di un povero bar urbano, una specie di mensa popolare, Simon Tanner, protagonista del romanzo “I fratelli Tanner” (1907) dello scrittore svizzero Robert Walser (1878-1956) dedica un breve monologo riflessivo a una sua singolare teoria della sobrietà, lì intesa come sobrietà nel mangiare e bere. Ma può valere anche per molte altre scene della vita.
“Simon era seduto in un angolino, una specie di bovindo, e mangiava burro e miele spalmati su un pezzo di pane, bevendo insieme una tazza di caffè: ‘Cosa mi serve mangiare di più in una così bella giornata? Il cielo azzurro di primavera non lascia forse cadere il suo sguardo benevolo, attraverso la finestra, sul mio cibo dorato? Certo, il mio cibo è dorato. Guardiamo soltanto il miele: non ha forse un colore giallo chiaro, dolcemente dorato? Quest’oro scivola così piacevolmente sul piccolo piattino bianco, e quando col coltello appuntito ne tolgo un poco mi sembra d’essere un cercatore d’oro che ha scoperto una pepita. Il bianco del burro lì vicino è incantevole, poi viene il colore bruno del pane saporito, e bello più di tutto è il marrone scuro del caffè nella graziosa tazza pulita. C’è al mondo un cibo che possa apparire più bello e appetitoso? E con questo io sazio magnificamente la mia fame, e di cosa altro ho bisogno se non di saziare la mia fame per poter dire: ho mangiato? Devono esserci persone che del mangiare fanno una cultura, un’arte; ebbene, non posso dire lo stesso anche di me? Certamente! Solo che la mia arte è discreta e la mia cultura più delicata, perché godo del poco con maggiore passione e più sontuosamente di quanto quelli non godano del molto e di ciò che non vuole aver fine. Inoltre non mi piace tirare tanto in lungo i pasti, altrimenti potrebbe più facilmente passarmi l’appetito…“
Robert Walser, da “I fratelli Tanner”, Adelphi
(m.f.) Questo è tempo di Quaresima: al di fuori del suo senso di silenzio interiore fra l’ultimo bagliore dei carnevali e la nuova luce della Pasqua e il rinascere della primavera, in questo periodo si parla spesso più in generale di buoni propositi, di una tensione per una sobrietà almeno temporanea, un esercizio di stile per una vita più attenta al profondo delle cose e meno alle eccedenze eccitate. Poi c’è anche chi in questo “tempo forte” si crea dei buoni stimoli e alibi per farsi piacere ferree diete dimagranti, tentativi di ridurre il giro di vita invece di cambiare un po’ la vita. Simon Tanner a un certo punto della vicenda del romanzo, proprio parlando del rapporto con il cibo, afferma la propria vocazione laica, esistenziale e persino lirica a una sobrietà come felice “istruzione per l’uso” del mangiare. Poi naturalmente il pensiero di Walser è anche allusivo, simbolico, delicatamente bizzarro. E sappiamo benissimo che si può anche mangiare indagando altri gusti, scoprendo invenzioni e tradizioni: la tastiera delle papille gustative suona musiche complesse. Ma, ne converrete, resta bellissimo, pittorico, il passaggio che vi abbiamo qui presentato del romanzo di Robert Walser, grande, umile, mite e agitato scrittore, girovago e camminatore, smarrito spesso in se stesso, creatore di scrittura ingenua e profonda, curiosa. Un cercatore di bellezza minima e di enigmi interiori, senza piombo nelle ali, senza ambizione invelenita. Simon è un candido, febbrile, appassionato e semplice protagonista del romanzo, in cui Robet Walser mette molto se stesso, anche evocando il richiamo e le inquietudini della fratellanza (e la copertina dell’edizione italiana di Adelphi, riprodotta qui sopra, mostra una bella acquaforte del fratello artista dello scrittore, Karl Walser, realizzata nel 1909). Proprio di Simon Tanner, creato da Walser, il suo grande estimatore Franz Kafka ha scritto: “Simon corre dappertutto, felice sino alla punta dei capelli, e alla fine non diventa nulla, se non una gioia del lettore”. Simon possiede dunque una sua sobrietà innata in tutto, e perciò anche quando si siede a tavola. Gli viene naturale, sempre: pensa quello che vive e vive quello che pensa, e dunque anche mangiando lui vive e crea una propria incantata sobrietà.
Per Simon (per Walser) il misurato gusto del cibo si impasta con i suoi colori, che vanno oltre il colore, e con la chiarità dell’aria e del cielo che avvolgono il piatto, il pane, burro e miele, l’osservazione minuziosa del mangiatore……
Robert Walser, dopo una vita inquieta intensa, punteggiata di dimore, viaggi, mestieri, sofferenze, dopo essere stato liberamente vagabondo ed essersi tuffato in una scrittura attentissima e sensitiva (una specie di calligrafia esistenziale) finirà i suoi giorni in una clinica psichiatrica del cantone Appenzello. A 78 anni, il 25 dicembre del 1956, nella mattina di Natale silenziosa e piena di neve, esce dalla clinica per una passeggiata e non fa più ritorno. Lo cercheranno, e seguendo le sue orme nella neve scopriranno infine la sagoma nera e immobile del suo corpo sul bianco, con le braccia spalancate. Morto per un infarto. “Sembrava un angelo caduto dal cielo”, dirà uno di quelli che erano accorsi sul posto.