Circolo dei Libri

Per condividere con altri il gusto della lettura, che per principio è individuale ma poi può anche farsi compagnia.

20ottobre
2024

​Eshkol Nevo

Feltrinelli

“La simmetria dei desideri” è il titolo di un fortunato e bel romanzo di Eshkol Nevo. Una certa asimmetria, invece, di desideri, sembrerebbe caratterizzare molti dei racconti dello stesso scrittore, appena tradotti da Feltrinelli. “Legàmi” è il titolo, che evoca le intime, complicate e spesso conturbanti connessioni delle trame affettive. Molto spesso la presenza del desiderio (essere amati, amare, essere addirittura felici) coincide con una dissonanza fra desiderio e desiderio, o quantomeno rivela tempistiche diverse fra i protagonisti. E tuttavia i legami affettivi (familiari, di amicizia, sessuali, psicologici, eccetera) sono la nervatura portante, a guardar bene, della società, prima ancora dei grovigli relazionali pubblici della società stessa. È nel cerchio ristretto degli intrecci affettivi privati che covano le trafitture esistenziali, le speranze e le disillusioni di uomini e donne che poi, tutti insieme, fanno la società. Nella seconda di copertina l’editore pone l’accento insistito proprio sulla centralità del desiderio, in questi racconti dello scrittore israeliano, al pari di tutti gli altri libri dell’autore. È un po’ vero ma penso tuttavia che quei racconti contengono tutte le piste relazionali e complesse dei legàmi affettivi, fra le quali il desiderio è una componente ma non necessariamente dominante. Ci sono anche le stanchezze affettive e le asimmetrie sentimentali (appunto), la fatica di sbarcare il lunario familiare, i gorghi consci e inconsci fra genitori e figli, poi la tenerezza, la dolcezza dell’abitudine collaudata negli amori longevi e, per contro, il delicato strazio dei distacchi. Sono racconti abbastanza brevi e fulminanti, quelli di Nevo. Vi accadono fratture e turbamenti, piccoli colpi di scena, minimi tracolli dei destini. Vi si inseguono possibili felicità (sì, appunto, il desiderio), si stemperano delusioni, sfrigolano caratteri. È la danza della vita. Nevo la conduce con linguaggio veloce e preciso, dando alla narrazione ritmo anche visivo (molti gli a capo, le pause grafiche). È una attualità sentimentale in presa diretta, una cronaca quotidiana della confusa geografia degli affetti: fra mariti e mogli, fra genitori e figli, fra amici e amanti, in plurime età e situazioni. La misura del racconto impedisce a Nevo di affondare la sonda psicologica in nature e trame più durature, ovvero nella forma del romanzo che gli conosciamo e abbiamo apprezzato. Qui va più spedito, talvolta si vorrebbe che si fosse soffermato di più, qualche racconto richiederebbe ossigeno in aggiunta per continuare a spiare i vizi e le virtù dei personaggi alle prese con i giochi di carte del destino. Quel che è certo è che Nevo sembra nato apposta per narrare. Lo sfondo della contemporaneità israeliana è proprio, questa volta, soltanto uno sfondo sfocato (peraltro i racconti sono stati pubblicati da Nevo in lingua ebraica l’anno scorso ma prima della tragedia del 7 ottobre e di tutte le sue conseguenze). Stavolta la scenografia narrativa di Nevo è un lungo seguito di molteplici interni familiari o affettivi. I legàmi, appunto.

20settembre
2024

​Matteo Terzaghi

Quodlibet

Si intrecciano in una cadenza quasi musicale i racconti (schizzi, apologhi, divertissements, bagliori narrativi) di Matteo Terzaghi raccolti in questo volume dalla struttura ironicamente e affettuosamente didattica. Si va per capitoli generali (“Manuali, enciclopedie, favole”, “Piccolo libro di lettura a uso di chi passa”, e “Altra infanzia”). In apertura, quasi come un piccolo avanspettacolo, c’è un raccontino intitolato “Si comincia con un funerale”: una visione un po’ felliniana in cui il passo malinconico del corteo funebre si trasforma in una ballata allegra e magica, liberatoria. Il pretesto d’avvio dell’autore è la sua curiosità per i celebri manuali Hoepli (il mitico libraio ed editore svizzero in Italia). Manuali su tutto lo scibile umano, perfino sui “duelli”, “sui cavi telegrafici sottomarini”, “sull’industria dei fiammiferi e del fosforo”… Da lì parte Terzaghi, raccontando con precisione e con humor sottile la storia dei fiammiferi e del fosforo per il quale si accende la capocchia dei suddetti, fino poi alla decadenza del fiammifero stesso, sconfitto dagli accendini. La prosa di Terzaghi è calcolatamente semplice, lieve, e nondimeno sapientemente impregnata di piccoli affondi preziosi (come fiammiferi che si accendono improvvisamente, ecco). Esempio: “L’invenzione dei fiammiferi ha portato allo spegnimento di molti fuochi, perché con i fiammiferi la necessità di conservare la brace nei focolari per potervi attingere una fiamma in qualsiasi momento è venuta meno. Il fuoco si è allontanato dall’esperienza quotidiana, si è estinto come conseguenza del fatto di poter essere acceso, all’occorrenza, con la massima facilità”. Questo pensiero si attaglia a molte altre invenzioni che conquistano qualcosa ma spesso danneggiano qualcosa d’altro. Prendiamo l’invenzione del telefono. Utilissima per carità, come già esclamava in un suo opuscolo del 1886 l’ingegner Michele Patocchi (“il telefono ogni giorno si moltiplica, si ramifica, s’estende ed invade il mondo”). Ma già nel 1880 il pittore Degas, racconta Paul Valéry, un giorno aveva deriso un amico che era scattato in piedi con la prontezza di un servo per rispondere allo squillo del telefono: - c’est ça le téléphone? On vous sonne, et vous y allez“. ”Oggi”, soggiunge Terzaghi, “sappiamo quali progressi avrebbe poi fatto la telefonia cent’anni dopo, congiungendosi con l’informatica, nell’asservimento degli esseri umani”. E qui capiamo come l’autore mantenga un suo malinconico scetticismo su certo “magnifico” progresso di una umanità sempre più indaffarata, affrettata, eccitata. Si intuisce che Matteo Terzaghi, progressista su certe cose, per certe altre è un conservatore giudizioso. Anche nel capitolo “Piccolo libro di lettura a uso di chi passa” (un invito a sostare, a sillabare storie minime) scopriamo personaggi divertenti, allusivi, o misteriosi, sempre un po’ dismessi, laterali rispetto al corso consueto delle cose. Come l’accordatore di pianoforti, per il quale “i pianoforti sono delle macchine perfettamente autonome, funzionano anche durante i black out, anche quando crolla il mondo” (e peraltro secondo lui “la musica non serve a niente, è il suo bello”). E l’accordatore, coerentemente con il suo pensiero, sale e scende a piedi nei caseggiati senza prendere l’ascensore. C’è la vecchia signora che nel suo appartamento ha radunato centinaia di sassi, ognuno preso nel corso della sua lunga vita da luoghi dove lei era stata felice, e alla sua morte alcuni operai caricano a badilate la montagna di sassi (che hanno perso la loro vita) su un camioncino. Poi c’è il dandy un po’ sdrucito che impersona Diogene, la giovane farmacista che impacchetta una medicina con tale cura al punto di fare innamorare il cliente e incartargli bene la sua felicità, e tante altre piccole storie che ricordano la grazia ilare o stralunata o malinconica del Marcovaldo di Calvino: minuscoli apologhi narrati con tenerezza e con leggerezza (anch’essa calviniana). E poi, ancora: memoria di uno scrittore caro, bizzarri ricordi postali, un eremita enciclopedico in valle Onsernone, e altro. Nel capitolo “Altra infanzia” si capisce bene che nell’età d’oro della vita ci si impregna di sensazioni, visioni, immagini che poi saranno fieno in cascina per tutta la vita. Si va dai vividi ricordi di nonni e nonne e zii stravaganti alle mitiche attraversate del passo del San Gottardo stipati in una Peugeot 404 azzurro cielo, fino ai primi impatti del ragazzino con il dolore e la morte (un braccio ferito, un gallo decapitato). C’è posto anche per la stagione intuitivamente creativa dei bambini, quando il figlio dello scrittore a cinque anni se n’era uscito con questa perfetta definizione: “i sogni sono dei filmini nell’aria”. Ecco dunque un divertente e anche malinconico, intenerito, preoeccupato libro di impressioni narrate con raffinatezza: un manuale sulla vita, ecco.

07giugno
2024

Hilma Wolitzer

Mondadori

Allegra e malinconica, ilare e drammatica, divertita e tormentata, sottile e profonda: eccola qui, Hilma Wolitzer, scoperta o riscoperta editoriale in lingua italiana (c’erano stati anni fa due romanzi tradotti, almeno uno è ancora in commercio) di una scrittrice statunitense feconda e longeva, tenera e impertinente. Oggi lei ha 94 anni. Ciò che stupisce, nella raccolta di racconti (ma con un filo continuativo da romanzo) pubblicata pochi mesi fa da Mondadori in italiano, è che il primo racconto è del 1966 (un’epoca storica fa, quasi) e l’ultimo è del 2020 (contemporaneo, in piena epidemia di COVID). La prefazione entusiasta e solidale di questo libro è di Elizabeth Strout, grande signora del romanzo americano. Si diceva della ambivalenza cangiante degli umori e delle esperienze narrate di questa scrittrice che intreccia ironia e tristezza: già il titolo della raccolta (”Oggi una donna è andata fuori di testa al supermercato”, esattamente tradotto dall’inglese, “Today a Women Went Mad in the Supermarket”) sembra umoristico ma sintetizza il momento poco allegro di uno smarrimento depressivo. Quasi tutti i racconti sono legati tra loro come un romanzo a periodi, un viaggio diaristico dentro gli anni, da quelli freschi a quelli della vecchiaia (le vicende di una coppia e dei loro figli). Fanno eccezione un paio di racconti con altri personaggi, dove c’è un cambio di identità ma non di stile e originalità. La prima persona narrante del filo continuativo è una donna che si racconta dentro il cerchio della propria intimità, dei propri affetti privati, delle proprie letizie e inquietudini. Formidabile (e raccomandabile a noi lettori maschi) il racconto della nascita del primo bambino, con tutta la cronaca di prima, durante e dopo il parto e tutte le implicazioni di attesa eccitata, paure, ironia psicosociale, con leggerezza e profondità, a conferma della sapiente doppia velocità umorale dell’autrice. Poi c’è l’amore sentimentale, c’è il rapporto con il suo uomo e padre dei suoi figli, la vita domestica, le serenità e le depressioni, l’insonnia e lo scontento, gli anni che passano, i vecchi genitori infragiliti e poi la stessa coppia protagonista che a sua volta invecchia e si ritrova negli anni ultimi e faticosi della vita. Qui ci sta una citazione. Siamo appunto al momento in cui la coppia coniugale è ormai molto anziana, con i figli adulti e fuori casa e loro stessi già genitori, e lei ogni mattino aprendo gli occhi verifica che il marito che le dorme accanto sia ancora vivo….: “Ogni volta che lo vedevo respirare e che l’aria del mattino era in agguato dietro le tende pronta a invadere la stanza, provavo un moto irragionevole di felicità. Un altro giorno! E poi un atro, un altro e un altro ancora. Colazione, vitamine, bollette, discussione, pillole per la pressione, pranzo, medico, integratore per il colesterolo, il telefono, cena, tv, pillole per dormire, sonno, sveglia, sembrava che potesse andare avanti in eterno in quel modo squisitamente e splendidamente noioso. Ma non era così, ovviamente, come tutti sappiamo”. Vedete che c’è dentro tutto? La divertita caricatura della fragilità senile e il rintocco drammatico del fatale declino dietro l’angolo. Wolitzer non si ferma qui e aggiunge una frecciata ironica e malinconica: “C’era uno schema con le varie pillole e ricostituenti attaccato al frigorifero con un magnete, dove una volta mettevamo i disegni dei bambini e poi dei nipoti”. Una frase, ed è tutta una vita.

19aprile
2024

Elizabeth Strout

Einaudi

Spunta anche Olive Kitteridge, vecchia conoscenza degli estimatori della scrittrice Elizabeth Strout, fra le pagine del suo ultimo romanzo, “Lucy davanti al mare”. È quasi solo un ammicco qua e là, dalla casa per anziani dove Olive, invecchiata ma indomita, è andata a vivere. Una citazione, ecco, per confermare la modalità di Strout di far passare nei suoi romanzi (quantomeno negli ultimi, altri già ne aveva scritti in precedenza) un filo di continuità. Questa volta però, a parte le brevi apparizioni di Olive, la continuità piena è quella di Lucy Barton, che già avevamo conosciuto in precedenti libri della Strout. Qui la ritroviamo sulla sessantina e oltre, nel pieno della pandemia di Covid. Lucy è vedova del suo ultimo marito e intrattiene buoni e persino cautamente affettuosi rapporti con il suo precedente marito William (che i lettori della Strout conoscono) il quale a sua volta è stato abbandonato bruscamente dalla nuova moglie, con cui ha avuto una figlia. Con Lucy invece di figlie ne avevano avute due, ora già giovani donne sposate. Dunque si annuncia questa strana ondata di un virus pericoloso e William, che di suo è ricercatore scientifico, ne avverte la grave e pericolosa portata. E così subito si dà da fare per far partire da una New York affollata le due figlie verso territori più tranquilli; per sé e per l’ex moglie Lucy ha trovato grazie a un amico una vecchia casa isolata sopra gli scogli in riva al mare sulla costa socialmente “buona” del Maine. I due si rifugiano lì per un loro lungo lockdown, con buona intesa (diamine, sono stati sposati e hanno insieme messo al mondo due figlie) dormendo naturalmente in camere separate (diamine, avevano pur divorziato). Parrebbe che la pandemia (la quale intanto dilaga) potrebbe cambiare radicalmente le vite delle persone e i loro destini. Ma non succede così. Certo, ci sono notizie di amici e parenti contagiati e qualcuno persino muore. Certo, il quadro generale è di ansia. Certo, ci sono le mascherine obbligatorie, i distanziamenti sociali, il lockdown, l’addio alle strette di mano e agli abbracci. Anzi, Lucy e William, che sono due intellettuali progressisti, sono il rovescio ossessivo dei negazionisti conservatori ossessivi (quelli per cui il Covid era una semplice influenza, mascherine e vaccini una esagerazione imposta, eccetera). Diciamo che Lucy e William sono ligi e attenti, persino un po’ troppo. Ma a parte tutto questo, il romanzo della Strout ci dice che nonostante lo sfondo di emergenza eccezionale le vite continuano, il tempo accoglie e accompagna le trame di sentimenti e crucci, preoccupazioni, piccole meraviglie. C’è forse più tempo per camminare in una natura meno assediata, per chiacchierare la sera sotto il portico bevendo vino bianco, leggere, far niente (vabbè, dico io, non tutti sono intellettuali benestanti con una casa isolata sulla scogliera a disposizione per fuggire dai contagi, ma insomma il romanzo parla di questa élite, peraltro simpatica e intelligente). Ma infine, e questo è il punto, anche per William e Lucy la vita nonostante la pandemia scandisce le sue tappe, regala o infligge le sue tenerezze e i suoi crucci, piaceri e dolori: le figlie grandi restano figlie e ogni loro scossa privata punge il cuore di chi le ha generate e gli stessi due ex coniugi riparati sotto uno stesso tetto causa Covid si interrogano, fra timori e tremori, su questa brace antica sotto la cenere del tempo. Si incontrano persone nuove, si incrociano destini, l’esistenza snoda le sue piste impreviste, i destini ricamano le loro trame, l’età annuncia scricchiolii di corpi e pannes di mente, stanchezze e malinconie, e cresce in cascina il fieno della memoria. C’est la vie, malgrado la pandemia: e non sono necessari drammi e ferite vistose, bastano i rintocchi delle piccole cose, dei piccoli dolori e meraviglie, delle insonnie pensose, degli umori mutevoli. Elizabeth Strout ci racconta tutto questo con arguzia leggera e con lievi affondi di saggezza ben sperimentata. La sua prosa quieta e attenta, osservatrice, sembra essere debitrice del venerato maestro Anton Cechov. Il quale, si sa, non faceva accadere troppe cose, bastandogli fare accadere la vita.

05aprile
2024

Paul Auster

Einaudi

A 77 anni, seriamente malato ma lucidissimo nella scrittura e nel pensiero che lo ispira, Paul Auster ci offre il suo ultimo romanzo in cui la malinconia riesce a convivere con un non enfatico né esultante ma discreto o sommesso attaccamento ai minimi miracoli della vita. Niente di autobiografico, in questo libro, per carità: perché se Paul Auster è ben sposato con la scrittrice Siri Hustvedt (che della malattia del marito dà notizie sobrie attraverso i social-media che lui detesta e non usa), il professor Seymour Baumgartner, protagonista del romanzo, insegnante universitario di filosofia alle soglie della pensione, è vedovo da dieci anni e vive nel mondo della solitudine e della nostalgia la perdita della cara moglie Anna, poeta sensibile e donna di temperamento. Anna era morta in acqua, al mare, travolta da un’onda anomala che l’aveva investita quando, a differenza del marito, aveva voluto tornare caparbiamente a bagnarsi. Baumgartner pensa a quello scarto atroce fra destini ma fa anche una riflessione: “Se non fosse tornata in acqua sarebbe ancora viva, ma non saremmo stati insieme per più di trent’anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva”. Anna manca moltissimo a Baumgartner: “mi manca, tutto qui. Era l’unica persona al mondo che io abbia mai amato, e ora devo trovare un modo per continuare a vivere senza di lei”. Il professore sente il grande vuoto lasciato dalla morte della moglie ma lui non vuole morire, vuole vivere. Vuole vivere per i suoi amati libri, gli studi, le lezioni, lo stesso quotidiano miracolo dell’esistenza. Ma vuole anche vivere perché se morisse pure lui allora anche Anna morirebbe davvero del tutto e per sempre: “Il vivo può mantenere il morto in una specie di limbo provvisorio tra la vita e la non vita. Ma quando muore anche il vivo, allora è la fine, e la coscienza del morto si spegne per sempre”. Baumgartner escogita anche i suoi piccoli trucchi per intercettare i succhi della vita: per esempio ordina in grande quantità due o tre volte per settimana dei libri scelti on-line che non leggerà mai soltanto per ricevere sulla porta di casa Molly, la fattorina nera dell’agenzia UPS di consegna, la quale in qualche modo lo fa pensare alla sua perduta moglie: forse per la sua “radiosa attenzione”, la sua “personalità luminosa”. Gli piace conversare un po’ con lei. Il professore dissoda intanto il terreno delle carte ben riposte e mai scrutate lasciate dalla moglie, scoprendo altre poesie, prose e testi stupefacenti: Anna era davvero una scrittrice forte e il vedovo sente l’imperio di conservarne la traccia come un custode amoroso e ammirato. Nel frattempo Baumgartner corteggia una donna che non gli dispiace e lui non dispiace a lei, perché la natura umana vuole vita, si sa. Ma i premi di consolazione, nella vita sentimentale, valgono poco. Infine si profila all’orizzonte una studentessa, interessata come ricercatrice proprio all’opera della moglie di Baumgartner, e dunque ecco che la ragazza diventa una specie di femminilità rediviva (perlomeno da percepire nei dintorni) e al tempo stesso di addetta al salvataggio della memoria di Anna. Baumgartner, con trepidazione e agitazione paterne, si sente benefattore e beneficato. Tuttavia il finale del romanzo, rapido, ambiguo, volutamente sospeso, lascia aperte molte piste. Forse, semplicemente, Auster vuole dirci che non siamo padroni del nostro destino e dietro l’angolo ci aspetta – non sappiamo come e quando – l’imponderabile. Scritto benissimo soprattutto nelle sue parti di nostalgia triste ma mai disperante, il libro si arruffa un poco nelle scoperta e nella trascrizione dei testi ritrovati della moglie,; infine ci spiazza e ci intriga nell’accelerazione stoppata del finale. La razza di grande autore di Paul Auster rimane quella di sempre.

15marzo
2024

Donatella Di Pietrantonio

Einaudi

Donatella Di Pietrantonio sa raccontare storie, eccome. Lo sa fare così bene che talvolta rischia l’ingombro di storie incrociate e sottostorie e viaggi di andata e ritorno fra presente e passato, come sempre succede a chi ama raccontare storie e anche a chi le sa raccontare molto bene. È il caso di questo “L’età fragile”, l’ultimo romanzo della scrittrice abruzzese di cui fu moltissimo apprezzato “L’Arminuta” e poi anche “Borgo Sud” (e già aveva in precedenza al suo attivo altri due titoli: “Mia madre è un fiume” e “Bella mia”). L’autrice conferma in pieno la sua forza di narratrice abile e soprattutto provvista di uno strumentario stilistico accurato ed efficace e di una sapienza drammaturgica proprio anche nel linguaggio. Il lettore si prepari a una storia di quelle del tipo “fiato sospeso”: le verità nascoste nel tempo e nella memoria affioreranno adagio adagio, creando la tensione continua del romanzo. Sono avvenute prima (e ancora accadono in diretta) molte cose, forse toppe in questo libro che chiede in ogni caso di essere letto proprio per la forza narrativa della sua autrice. La fragilità evocata dal titolo è quella dell’età delicata di adolescenza e giovinezza, ma si estende anche ad altre categorie d’anni. Lucia, la protagonista, è madre di Amanda, studentessa universitaria a Milano, la quale, a causa del lockdown per COVID ma forse anche di altri motivi, lascia la metropoli e torna a casa sua in Abruzzo, dalla mamma (che vive separata da un marito abbastanza evanescente). Ma la madre non riesce più a decifrare i codici comunicativi della figlia, chiusa a istrice in un suo mutismo verbale di animo: una sottile lastra di vetro separa la figlia ombrosa e triste dalla madre ansiosa e preoccupata e amorevole e paziente come tutte (o quasi) le madri. Amanda vive una sua fragilità e Lucia per molto tempo non riesce a intercettarla. A sua volta Lucia era stata amicissima in adolescenza con Doralice: ma nel presente veniamo a sapere che quella compattezza affettuosa non regge più. Qualcosa deve essere successo. Quel qualcosa si nasconde su nei prati, pascoli, boschi e rocce della campagna d’Abruzzo, nella zona dominata dalla cima aguzza del “Dente del lupo”. Lassù, fra l’altro, il padre di Lucia, Rocco, contadino vedovo legato alla terra, con cui la figlia ha un buon rapporto affettivo ma psicologicamente non facile (altre fragilità in circolazione) vuole ad ogni costo fare una donazione ereditaria anticipata a Lucia, un terreno cha sta lassù sotto il “Dente del lupo”, dove c’era stato anni prima un bel campeggio con osteria e dove, soprattutto, era appunto “successo qualcosa”: di brutto. Tutta questa materia si aggroviglia e si dipana fra asimmetrie psicologiche, malintesi affettivi e, tuttavia, anche voglia di ricucire, crescere, ri-saldare. Nel frattempo la trama degli animi si incrocia con quella “gialla” di un dramma da conoscere poco a poco. Appaiono infine anche temi attuali: la solitudine di molte persone, che si tratti di arcigni pastori o di giovani immigrati impauriti e turbati, e poi anche il vento verde dell’ecologia e della difesa del territorio. Forti sono l’immagine il senso, nel romanzo, di una Natura che nei selvaggi boschi d’Abruzzo può abbracciarti ma può essere anche matrigna, accogliente o paurosa: sta alla forza delle scelte umane giuste avere con lei un rapporto buono. Molte cose, come si arguisce, forse troppe. Ma raccontate benissimo.

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