Circolo dei Libri

Per condividere con altri il gusto della lettura, che per principio è individuale ma poi può anche farsi compagnia.

19aprile
2024

Elizabeth Strout

Einaudi

Spunta anche Olive Kitteridge, vecchia conoscenza degli estimatori della scrittrice Elizabeth Strout, fra le pagine del suo ultimo romanzo, “Lucy davanti al mare”. È quasi solo un ammicco qua e là, dalla casa per anziani dove Olive, invecchiata ma indomita, è andata a vivere. Una citazione, ecco, per confermare la modalità di Strout di far passare nei suoi romanzi (quantomeno negli ultimi, altri già ne aveva scritti in precedenza) un filo di continuità. Questa volta però, a parte le brevi apparizioni di Olive, la continuità piena è quella di Lucy Barton, che già avevamo conosciuto in precedenti libri della Strout. Qui la ritroviamo sulla sessantina e oltre, nel pieno della pandemia di Covid. Lucy è vedova del suo ultimo marito e intrattiene buoni e persino cautamente affettuosi rapporti con il suo precedente marito William (che i lettori della Strout conoscono) il quale a sua volta è stato abbandonato bruscamente dalla nuova moglie, con cui ha avuto una figlia. Con Lucy invece di figlie ne avevano avute due, ora già giovani donne sposate. Dunque si annuncia questa strana ondata di un virus pericoloso e William, che di suo è ricercatore scientifico, ne avverte la grave e pericolosa portata. E così subito si dà da fare per far partire da una New York affollata le due figlie verso territori più tranquilli; per sé e per l’ex moglie Lucy ha trovato grazie a un amico una vecchia casa isolata sopra gli scogli in riva al mare sulla costa socialmente “buona” del Maine. I due si rifugiano lì per un loro lungo lockdown, con buona intesa (diamine, sono stati sposati e hanno insieme messo al mondo due figlie) dormendo naturalmente in camere separate (diamine, avevano pur divorziato). Parrebbe che la pandemia (la quale intanto dilaga) potrebbe cambiare radicalmente le vite delle persone e i loro destini. Ma non succede così. Certo, ci sono notizie di amici e parenti contagiati e qualcuno persino muore. Certo, il quadro generale è di ansia. Certo, ci sono le mascherine obbligatorie, i distanziamenti sociali, il lockdown, l’addio alle strette di mano e agli abbracci. Anzi, Lucy e William, che sono due intellettuali progressisti, sono il rovescio ossessivo dei negazionisti conservatori ossessivi (quelli per cui il Covid era una semplice influenza, mascherine e vaccini una esagerazione imposta, eccetera). Diciamo che Lucy e William sono ligi e attenti, persino un po’ troppo. Ma a parte tutto questo, il romanzo della Strout ci dice che nonostante lo sfondo di emergenza eccezionale le vite continuano, il tempo accoglie e accompagna le trame di sentimenti e crucci, preoccupazioni, piccole meraviglie. C’è forse più tempo per camminare in una natura meno assediata, per chiacchierare la sera sotto il portico bevendo vino bianco, leggere, far niente (vabbè, dico io, non tutti sono intellettuali benestanti con una casa isolata sulla scogliera a disposizione per fuggire dai contagi, ma insomma il romanzo parla di questa élite, peraltro simpatica e intelligente). Ma infine, e questo è il punto, anche per William e Lucy la vita nonostante la pandemia scandisce le sue tappe, regala o infligge le sue tenerezze e i suoi crucci, piaceri e dolori: le figlie grandi restano figlie e ogni loro scossa privata punge il cuore di chi le ha generate e gli stessi due ex coniugi riparati sotto uno stesso tetto causa Covid si interrogano, fra timori e tremori, su questa brace antica sotto la cenere del tempo. Si incontrano persone nuove, si incrociano destini, l’esistenza snoda le sue piste impreviste, i destini ricamano le loro trame, l’età annuncia scricchiolii di corpi e pannes di mente, stanchezze e malinconie, e cresce in cascina il fieno della memoria. C’est la vie, malgrado la pandemia: e non sono necessari drammi e ferite vistose, bastano i rintocchi delle piccole cose, dei piccoli dolori e meraviglie, delle insonnie pensose, degli umori mutevoli. Elizabeth Strout ci racconta tutto questo con arguzia leggera e con lievi affondi di saggezza ben sperimentata. La sua prosa quieta e attenta, osservatrice, sembra essere debitrice del venerato maestro Anton Cechov. Il quale, si sa, non faceva accadere troppe cose, bastandogli fare accadere la vita.

05aprile
2024

Paul Auster

Einaudi

A 77 anni, seriamente malato ma lucidissimo nella scrittura e nel pensiero che lo ispira, Paul Auster ci offre il suo ultimo romanzo in cui la malinconia riesce a convivere con un non enfatico né esultante ma discreto o sommesso attaccamento ai minimi miracoli della vita. Niente di autobigrafico, in questo libro, per carità: perché se Paul Auster è ben sposato con la scrittrice Siri Hustvedt (che della malattia del marito dà notizie sobrie attraverso i social-media che lui detesta e non usa), il professor Seymour Baumgartner, protagonista del romanzo, insegnante universitario di filosofia alle soglie della pensione, è vedovo da dieci anni e vive nel mondo della solitudine e ella nostalgia la perdita della cara moglie Anna, poeta sensibile e donna di temperamento. Anna era morta in acqua, al mare, travolta da un’onda anomala che l’aveva investita quando, a differenza del marito, aveva voluto tornare caparbiamente a bagnarsi. Baumgartner pensa a quello scarto atroce fra destini ma fa anche una riflessione: “Se non fosse tornata in acqua sarebbe ancora viva, ma non saremmo stati insieme per più di trent’anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva”. Anna manca moltissimo a Baumgartner: “mi manca, tutto qui. Era l’unica persona al mondo che io abbia mai amato, e ora devo trovare un modo per continuare a vivere senza di lei”. Il professore sente il grande vuoto lasciato dalla morte della moglie ma lui non vuole morire, vuole vivere. Vuole vivere per i suoi amati libri, gli studi, le lezioni, lo stesso quotidiano miracolo dell’esistenza. Ma vuole anche vivere perché se morisse pure lui allora anche Anna morirebbe davvero del tutto e per sempre: “Il vivo può mantenere il morto in una specie di limbo provvisorio tra la vita e la non vita. Ma quando muore anche il vivo, allora è la fine, e la coscienza del morto si spegne per sempre”. Baumgartner escogita anche i suoi piccoli trucchi per intercettare i succhi della vita: per esempio ordina in grande quantità due o tre volte per settimana dei libri scelti on-line che non leggerà mai soltanto per ricevere sulla porta di casa Molly, la fattorina nera dell’agenzia UPS di consegna, la quale in qualche modo lo fa pensare alla sua perduta moglie: forse per la sua “radiosa attenzione”, la sua “personalità luminosa”. Gli piace conversare un po’ con lei. Il professore dissoda intanto il terreno delle carte ben riposte e mai scrutate lasciate dalla moglie, scoprendo altre poesie, prose e testi stupefacenti: Anna era davvero una scrittrice forte e il vedovo sente l’imperio di conservarne la traccia come un custode amoroso e ammirato. Nel frattempo Baumgartner corteggia una donna che non gli dispiace e lui non dispiace a lei, perché la natura umana vuole vita, si sa. Ma i premi di consolazione, nella vita sentimentale, valgono poco. Infine si profila all’orizzonte una studentessa, interessata come ricercatrice proprio all’opera della moglie di Baumgartner, e dunque ecco che la ragazza diventa una specie di femminilità rediviva (perlomeno da percepire nei dintorni) e al tempo stesso di addetta al salvataggio della memoria di Anna. Baumgartner, con trepidazione e agitazione paterne, si sente benefattore e beneficato. Tuttavia il finale del romanzo, rapido, ambiguo, volutamente sospeso, lascia aperte molte piste. Forse, semplicemente, Auster vuole dirci che non siamo padroni del nostro destino e dietro l’angolo ci aspetta – non sappiamo come e quando – l’imponderabile. Scritto benissimo soprattutto nelle sue parti di nostalgia triste ma mai disperante, il libro si arruffa un poco nelle scoperta e nella trascrizione dei testi ritrovati della moglie, e ci spiazza nell’accelerazione stoppata del finale. Ma la razza d’autore di Paul Auster è sempre quella.

15marzo
2024

Donatella Di Pietrantonio

Einaudi

Donatella Di Pietrantonio sa raccontare storie, eccome. Lo sa fare così bene che talvolta rischia l’ingombro di storie incrociate e sottostorie e viaggi di andata e ritorno fra presente e passato, come sempre succede a chi ama raccontare storie e anche a chi le sa raccontare molto bene. È il caso di questo “L’età fragile”, l’ultimo romanzo della scrittrice abruzzese di cui fu moltissimo apprezzato “L’Arminuta” e poi anche “Borgo Sud” (e già aveva in precedenza al suo attivo altri due titoli: “Mia madre è un fiume” e “Bella mia”). L’autrice conferma in pieno la sua forza di narratrice abile e soprattutto provvista di uno strumentario stilistico accurato ed efficace e di una sapienza drammaturgica proprio anche nel linguaggio. Il lettore si prepari a una storia di quelle del tipo “fiato sospeso”: le verità nascoste nel tempo e nella memoria affioreranno adagio adagio, creando la tensione continua del romanzo. Sono avvenute prima (e ancora accadono in diretta) molte cose, forse toppe in questo libro che chiede in ogni caso di essere letto proprio per la forza narrativa della sua autrice. La fragilità evocata dal titolo è quella dell’età delicata di adolescenza e giovinezza, ma si estende anche ad altre categorie d’anni. Lucia, la protagonista, è madre di Amanda, studentessa universitaria a Milano, la quale, a causa del lockdown per COVID ma forse anche di altri motivi, lascia la metropoli e torna a casa sua in Abruzzo, dalla mamma (che vive separata da un marito abbastanza evanescente). Ma la madre non riesce più a decifrare i codici comunicativi della figlia, chiusa a istrice in un suo mutismo verbale di animo: una sottile lastra di vetro separa la figlia ombrosa e triste dalla madre ansiosa e preoccupata e amorevole e paziente come tutte (o quasi) le madri. Amanda vive una sua fragilità e Lucia per molto tempo non riesce a intercettarla. A sua volta Lucia era stata amicissima in adolescenza con Doralice: ma nel presente veniamo a sapere che quella compattezza affettuosa non regge più. Qualcosa deve essere successo. Quel qualcosa si nasconde su nei prati, pascoli, boschi e rocce della campagna d’Abruzzo, nella zona dominata dalla cima aguzza del “Dente del lupo”. Lassù, fra l’altro, il padre di Lucia, Rocco, contadino vedovo legato alla terra, con cui la figlia ha un buon rapporto affettivo ma psicologicamente non facile (altre fragilità in circolazione) vuole ad ogni costo fare una donazione ereditaria anticipata a Lucia, un terreno cha sta lassù sotto il “Dente del lupo”, dove c’era stato anni prima un bel campeggio con osteria e dove, soprattutto, era appunto “successo qualcosa”: di brutto. Tutta questa materia si aggroviglia e si dipana fra asimmetrie psicologiche, malintesi affettivi e, tuttavia, anche voglia di ricucire, crescere, ri-saldare. Nel frattempo la trama degli animi si incrocia con quella “gialla” di un dramma da conoscere poco a poco. Appaiono infine anche temi attuali: la solitudine di molte persone, che si tratti di arcigni pastori o di giovani immigrati impauriti e turbati, e poi anche il vento verde dell’ecologia e della difesa del territorio. Forti sono l’immagine il senso, nel romanzo, di una Natura che nei selvaggi boschi d’Abruzzo può abbracciarti ma può essere anche matrigna, accogliente o paurosa: sta alla forza delle scelte umane giuste avere con lei un rapporto buono. Molte cose, come si arguisce, forse troppe. Ma raccontate benissimo.

23gennaio
2024

Paolo Cognetti

Einaudi

Metti un western un po’ cupo ma con un filo di bene e un bel respiro di natura, mettilo non nell’Ovest o nel Nordamerica ma nella bella Valsesia di Piemonte, ed ecco la sintesi di questo nuovo romanzo di Paolo Cognetti, il quale rimane volentieri, come scrittore e anche come residente (anche se abbastanza pendolare) sulle sue montagne valdostane. Cognetti non fa mistero dell’ascendenza che la narrativa americana (da lui praticata e amata e ben conosciuta) ma anche la musica e il cinema, hanno avuto sulla genesi e sulla stoffa di questo romanzo dell’autore di “Le otto montagne” e “La felicità del lupo” (ma prima del successo di critica e di pubblico c’erano stati altri libri, fra cui “Sofia si veste sempre di nero e “Il ragazzo selvatico”). Sembrano in effetti dentro una narrazione o sceneggiatura da “nuova frontiera” del west o delle grandi foreste del nord la natura selvaggia e le movenze dei personaggi del romanzo. È il caso dei caratteri ruvidi dei due fratelli Luigi e Alfredo, il primo guardia forestale in Valsesia dove è nato e cresciuto, il secondo tornato in valle dopo anni di assenza in Canada, dove ha lavorato al taglio di alberi nei boschi giganteschi di là. Li unisce un’infanzia dura e rurale, con la memoria condivisa di una cascina in altura (il luogo dell’anima ma anche sfondo di dramma) e di un padre con il quale la sorte non è stata benigna. Quel padre comunque aveva piantato davanti alla cascina due alberi, di diverso “carattere”, per simboleggiare la nascita e poi la crescita di quei due figlioli. E i due, affratellati ma diversi come i due alberi, si ritrovano nella loro Valsesia: Luigi ha avviato un amore buono con una villeggiante colta (a differenza di lui) e sensibile: quell’amore tiene. Alfredo invece è più ferito da una sua solitudine cresciuta in lontananza, forse è tornato per recidere fili e ripartire. Un’altra cosa accomuna i due fratelli: l’incupita passione per la bottiglia: si beve a fiumi, nel romanzo, l’alcol è salvezza e abbrutimento, consolazione e perdizione. L’andatura del romanzo, che inizia con le vicende di due cani (animali e alberi sembrano qui avere un’anima nel libro) che pensano, evoca appunto il taglio brusco e ruvido che chiameremo “americano”: ci si immagina Luigi e Alfredo comparire con camicie pesanti a scacchi colorati e scarpe robuste, in movimento fra boschi, pascoli, pompe di benzina e banconi di bar, in quella Valsesia azzannata da capannoni e periferie squallide in basso ma sempre più pura su verso il fiume che è ancora torrente e ancora più su verso spazi e natura incontaminati. Cognetti in chiusura di libro confessa il suo debito americano: con la musica di Springsteen ma anche con la vena di scrittura di autori come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Steinbeck. Ma anche altri nomi di scrittori, e di registi. E poi c’è una specie di ballata sugli alberi, che hanno linfa di vita vera. Il risultato è un lungo racconto “country” nella bella terra di Valsesia, che dai borghi di pianura e dai villaggi di montagna di radice walser sale su fino alla cattedrale alta e chiara del Monte Rosa. Ritmo aspro e rude e un residuo filo amoroso fra memoria e speranza sono i connotati di un romanzo che restituisce Cognetti, dopo la parentesi animalista e green di “La felicità del lupo” a una meno sentimentale rappresentazione del faticoso connubio fra le solitudini umane e l’ineffabile natura della terra.

11novembre
2023

Ian Fleming

Adelphi

Lo sapevate che James Bond è per metà svizzero? Suo padre era scozzese ma sua madre era svizzera. A dircelo è il suo creatore vero ed originale, Ian Fleming, che l’agente segreto 007 lo ha inventato prestandolo poi al mondo rutilante del cinema, che ne ha fatto uno degli eroi, forse il più celebre, della narrazione filmica mondiale. Adelphi ha appena tradotto e pubblicato in italiano, a 60 anni giusti dalla sua pubblicazione in inglese del 1963, “Al servizio segreto di Sua Maestà”. Che non solo ci dice che 007 è svizzero al cinquanta per cento ma muove tutta la agitata storia del romanzo proprio in Svizzera, da Zurigo in Engadina, fra Celerina, Skt Moritz, Pontresina e Lagalp e soprattuto sui tremila metri d’altitudine di una roboante stazione invernale. Lassù, in una avveniristica stazione d’arrivo rotonda, piena di lusso e di segreti, si è rifugiato, a quanto pare, il cattivissimo Ernst Stavro Blofeld, che in “Operazione Tuono” sembrava essere stato neutralizzato un volta per tutte, lui e la sua criminosa organizzazione SPECTRE, e invece sembra che sia risorto con un altro progetto di dominio perverso del mondo. Il servizio segreto di Sua Maestà britannica, diretto dall’asciutto, autorevole ed enigmatico M., rimette in circolo il suo agente migliore, 007, e così James Bond entra di nuovo in scena. A parte un appassionante preambolo fra mafia e amore in Costa Azzurra (Bond non tralascia mai di puntare alle conquiste femminili) tutta la vicenda si svolge fra le nevi svizzere, con spericolate discese e inseguimenti sugli sci a rischio di morte e molti colpi di scena. Il James Bond letterario dovuto alla penna tutt’altro che sprovveduta di Ian Fleming, vero mago del ritmo mozzafiato, è proprio quello affascinante e coraggioso, ironico e seduttore, che abbiamo imparato ad ammirare al cinema, soprattutto nelle prime pellicole, quelle con Sean Connery e ancora senza esagerazioni tecnologiche e ritmi pirotecnici. Jan Fleming fu lui stesso agente segreto britannico e morì abbastanza presto (un anno dopo aver pubblicato questo romanzo, ultimo di una serie, a 56 anni, nel 1964, e dunque fra poco avremo il sessantesimo dalla sua scomparsa) dopo una vita dove non mancarono mai whiskey, sigarette e belle donne (tale e quale il suo personaggio, il quale però, a differenza del suo creatore, non muore mai…). Fleming ebbe il dono di una scrittura immaginosa, accesa, fantasmagorica, ricca di colpi di scena e ritmo ma anche condita di ironia british. Qui non si dice naturalmente nulla della trama, ma state certi che leggere questo libro sarà come vedere un classico James Bond al cinema: non vorrete nemmeno una pausa, non staccherete gli occhi dalle pagine come non li avete staccati dallo schermo. La svizzerità del romanzo si arricchisce anche di una curiosità minima ma divertente per gli svizzeri italiani: a un certo punto, viaggiando in elicottero e volendo sfuggire ai radar di terra elvetici per andare in missione segreta a stanare Blofeld sulle cime engadinesi, James Bond rifila una bugia a una torre di controllo dicendo di star volando a portare medicinali urgenti all’ospedale di Santa Monica di Bellinzona. Ecco, 007 conosceva l’esistenza di Bellinzona…

22settembre
2023

Vladimir Nabokov

Adelphi

La genialità di Vladimir Nabokov come narratore sta proprio nella forza della sua scrittura (così immaginosa e duttile, accesa di invenzioni, materica come una pittura vigorosa) prima ancora che nella curiosità, o nell’enigma o nella passione della trama. A Nabokov basta la scrittura, possente di per sé, il resto è aggiunta. Così accade per “Mašen’ka” tradotto ora in italiano da Adelphi ma che fu di fatto il primissimo romanzo di Nabokov, pubblicato in russo nel 1926 e tradotto in inglese dallo stesso autore nel 1970. Lo scrittore fu così padrone di lingue, linguaggi e scrittura da aver infatti potuto scrivere una prima serie di romanzi nella sua nativa lingua russa e poi di averli successivamente tradotti nella adottiva lingua inglese, così come a un certo punto si mise a scrivere nuovi romanzi in inglese, da lui poi tradotti in russo. Questo “Mašen’ka” ha una chiara valenza autobiografica, tant’è che in una prefazione lo stesso Nabokov scrive: “Vista l’eccezionale distanza della Russia e il fatto che la nostalgia rimane la dissennata compagnia di tutta una vita, le cui strazianti bizzarrie ci si abitua a manifestare in pubblico, non provo alcun imbarazzo ad ammettere l’acuta fitta sentimentale di attaccamento al mio primo libro”.
Il romanzo è una storia intima di presente e di memoria, un tempo attuale di meschina vita d’esilio di un gruppetto di russi scappati dalla rivoluzione e confinati in una squallida pensione di Berlino, e un tempo di struggente nostalgia per un passato russo perduto, dorato proprio perché perduto e perché immerso nella cara luminosità dell’adolescenza. Il protagonista del libro è il giovanotto Ganin, fuggito come lo stesso Nabokov con la propria famiglia a 18 anni dalla Russia bolscevica. Ganin, come Nabokov, ha abbandonato una vita di agiata e trasognata ricchezza, con grandi ville signorili di campagna e lussureggianti giardini e campi. Lì il ragazzo Gainin si era innamorato della graziosa ragazza Mašen’ka, ne era nato un amore febbrile e limpido, fra biciclettate notturne e baci densi di futuro. La rivoluzione ha travolto tutto, disperso adolescenza, amori, dimore lussuose, luci e stagioni, tutto cristallizzato in una memoria fuggiasca. Sono passati una decina d’anni e Ganin è approdato in quella pensione berlinese tenuta da una vedova russa forzatamente avara. I comprimari sono pochi, pennellati con mano maestra e impietosa: un poeta invecchiato e infragilito, due ballerini maschi tutti incipriati e “queruli come donne”, una ragazza polposa, comparse abbozzate di un gruppo di emigrés russi in uno squallido interno. Succede a un certo punto che per caso il balenare di una fotografia ridesti alla memoria e al cuore di Ganin la perduta Mašen’ka dei perduti anni russi e forse sta per accadere il possibile riemergere reale di Mašen’ka. Da lì l’atmosfera d’attesa e memoria, in continui rimandi fra il profumo dolce del passato e l’odore di minestra di cavoli della pensione berlinese. Nabokov racconta di fatto se stesso, la sua schizofrenica separazione fra una infanzia e adolescenza luminose sotto grandi cieli di mutevoli stagioni e odore estivo di fieno e biancore di nevi invernali da un lato, e dall’altro l’angusta ristrettezza di un presente che solo il ricordo del passato perduto può irradiare di qualche tremula luce. L’altalenante oscillazione della nostalgia e delle ristrettezze, del passato cristallizzato in sogno e del presente povero, è la cifra narrativa di una esperienza che ha investito davvero e in pieno la giovinezza reale di Nabokov. E questa esperienza, trascesa dall’invenzione, viene raccontata con la magistrale, raffinata bravura stilistica di un prestigiatore delle parole che usa la propria magia per attraversare e squarciare il tempo.

01luglio
2023

Claudio Piersanti

Rizzoli

Lorenzo Righi, sulla sessantina, medico di successo in una clinica di lusso di una tranquilla e benestante città italiana, avrebbe di che essere soddisfatto della propria rassicurante temperatura esistenziale. Eppure, eppure. Innanzitutto il dottore è ipocondriaco, ovvero immagina ogni giorno di essere minacciato da chissà quale insorgente, subdola malattia. Forse proprio perché è medico, conosce i rovesci della salute, constatabili ogni giorno sui vecchi corpi e nelle vecchie menti dei suoi anziani pazienti ricchi sul viale del tramonto. E così una volta al mese il dottor Righi, complice il capo radiologo della clinica, si sottopone a un accuratissimo check up, accendendo tutte le macchine sofisticate possibili. E ogni volta il sorridente radiologo dice al collega: va là che sei sano, sanissimo. Ma Lorenzo riflette dentro di sé: sì, va bene, ma la prossima volta ? Il dottor Righi sembra inadatto alla quieta fortuna che gli arride, certamente risulta anafettivo e consuma rapidi e indifferenti amori senza nemmeno troppa frequenza. Non è felice, ecco. Senza apparenti motivi di non esserlo se non, forse, una aridità complessiva di testa e di cuore. E anche un difficilissimo rapporto con un padre fedifrago e in fuga. Quel che è certo è che il dottore non si diverte quasi più ("Forse per la prima volta anche Lorenzo sorrise. In effetti non sorrideva quasi più da tanto tempo, e le sue guance sembravano disabituate e sentì benissimo le pieghe del sorriso che le scavavano"). Questo è l'avvio e questa è l'atmosfera psicologica ed emotiva del romanzo fino ai suoi due terzi, in cui l'unica novità è il legame casualmente riallacciato con un antico amico riemerso, ricco e abbastanza spregiudicato in quanto ai piaceri della vita. Far i due scatta una complicità singolare, tesa a un salvataggio edonistico bizzarro, fra bagni notturni nella piscina del parco della villa, robuste bevute e anche qualche ricorso alle droghe. Qualche volta, un po' disfatti ma sensibili, i due ammirano l'immenso cielo stellato sopra di loro e non avendo più parole per dirlo si limitano a viverlo: "le parole dello stupore finiscono, lo stupore resta, muto e perfetto, più loquace di qualunque lingua." Ma come ogni felicità artificiale, si tratta di una felicità illusoria. Finché, a due terzi del romanzo, un giorno il dottor Lorenzo trova davanti al proprio uscio una ragazzina dalle gambe lunghe che sostiene di essere sua parente. Di più non diciamo: si addentri il lettore nella storia. Lì comunque avverrà una svolta e scopriremo che Lorenzo Righi, non sapendolo, aveva nostalgia e bisogno di un alone caldo, di un abbozzo anche abborracciato di tepore familiare, di una rassicurazione di nido. Forse per lui potrà avvenire una redenzione affettiva e tardiva. Claudio Piersanti, che nei suoi romanzi ci abitua alla trasformazione sapiente e quasi camaleontica della sua espressività stilistica (basterebbe confrontare, fra i suoi libri, due libri diversissimi fra loro come "La forza di gravità" e "Quel maledetto Vronskij""…), questa volta annota meticolosamente l'inadeguatezza alla felicità del protagonista, con una vivisezione psicologica ed esistenziale attentissima. E poi accende l'empatia di sangue nuovo e speranza perché spesso soltanto un inatteso incontro è portatore di ritmo nuovo e salvezza (viene in mente il celebre verso di Eugenio Montale: "un imprevisto è la sola speranza"). Il nuovo romanzo di Piersanti, con vivezza narrativa, non fa sconti sulla sovrabbondanza di scontento ma apre uno squarcio forte di avvenire dischiuso alla speranza.

17febbraio
2023

Casagrande

L'albergo di famiglia a Paradiso, appena fuori Lugano, sulle prime pendici del Monte San Salvatore, ha accolto l'infanzia e la giovinezza di Claudia Quadri e di sua sorella, assieme ai genitori proprietari dell'hotel e fatti della pasta antica della grande signorilità alberghiera svizzera. Poi le cose vanno come vanno, un giorno l'albergo viene venduto e sarà distrutto e Claudia adulta guarda gli ultimi guizzi di vita di scale, finestre, decorazioni di pavimenti, tappezzerie, piccola archeologia di vita amata, vissuta e perduta, e infine il crollo delle macerie sotto le ruspe. E ora la scrittrice mette mano a una sua " ricerca del tempo perduto", con nostalgia ma anche con lucida ironia. Invece del "ragazzo della via Gluck" che rimpiangeva prati e stagioni scomparse, ecco "la ragazza di Paradiso" a rievocare scene di un'infanzia e adolescenza risucchiate dal tempo. Ne nasce questo romanzo che di fatto è una ricognizione totalmente autobiografica ma al tempo stesso è davvero un romanzo perché possiede il canto narrativo assieme alla scrupolosa saldezza di una scrittura accesa, sorvegliata, accurata. In precedenza la scrittrice ticinese, già "premio svizzero di letteratura" nel 2015, aveva scritto romanzi di pura invenzione: "Lupe", "Lacrima", "Come antiche astronavi", "Suona, Nora Blume". Questa vota, "nel mezzo del cammin di vita sua" Quadri compie un viaggio a ritroso nel proprio tempo privato e racconta il vero, anche se poi, si sa, la memoria filtra, trattiene, nasconde o accende cose, con un proprio arbitrio. Se allora la prima parola del titolo è chiara (infanzia), la seconda (bestiario) va spiegata. Il fatto è che in questo libro ci sono animali piccoli e grandi, domestici o liberi, che senza ingombrare abitano le pagine e la memoria: innanzitutto il fedele cane delle inesauste camminate (e al cane Wisky è dedicato il libro) ma poi anche gatti, cavalli, piccioni, tartarughe, tassi, falchi, lumache, serpenti, lucciole (piccola citazione della figlia dell'autrice: "Perché le stelle sono così basse, stasera?-, ha chiesto Neda, bambina, la prima volta che ha visto le lucciole"). Quegli animali sono i testimoni delle ore vissute e raccontate, con la loro presenza discreta, misteriosa e silenziosa, spesso eloquente più della parola. Il libro contiene piccole storie, aneddoti, scaglie di memoria, tenerezze e tristezze, con un persistente soffio affettivo per le figure dei genitori così essenziali, così necessari nella narrazione come lo furono nella infanzia e giovinezza dell'autrice. Alcune scene sono anche esilaranti, come quella della ragazza in bikini in groppa a un cavallo imbizzarrito che si ritrova in piena autostrada"… Altri attimi sono intessuti con la malinconia, altri con i lampi di curiosità e le emozioni che appartengono all'età breve e decisiva degli anni freschi. Oltre agli animali hanno una loro presenza forte, nel romanzo, gli alberi, la natura: alberi antichi e maestosi, alberi uccisi, mangiati dall'avanzata dell'esercito edilizio. Pesco un breve brano che dice quello struggimento e al tempo stesso rivela la cura stilistica della scrittura: "Oggi sappiamo che gli alberi comunicano tra di loro. Malgrado in superficie tronco e chiome non esistano più, le radici di questi alberi fantasma sono ancora vive. Cosa si dicono, ora, nell'alfabeto Morse dei miceti, delle ife? Il lamento silenzioso dei grandi alberi tagliati si srotola nel sottosuolo, sotto le nostre scarpe, gomitolo triste che viaggia da un albero all'altro, che racconta la ghigliottina, l'acciaio della lama". Claudia Quadri ha lavorato di ago e filo per cucire insieme i fiotti della propria memoria: "L'ago serve a ricucire gli strappi. È una richiesta di perdono. Non è mai aggressivo. Non è uno spillo. Ricucire gli strappi nel paesaggio dell'infanzia prima che si laceri del tutto: può darsi che i miei vagabondaggi, travestiti da passeggiate con il cane, siano ormai un lavoro di sartoria: camminare, rammendare". Ecco, Claudia Quadri ha fatto un'opera finissima di rammendo, per salvare dalle macerie del tempo il proprio tempo, di quando "tutto era in attesa, acquattato nel futuro". E il futuro sarebbe diventato l'oggi, sarebbe diventato questo libro che salva il passato.

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