Silvio D'Arzo
Einaudi
A cento anni dalla nascita del suo autore, Silvio D'Arzo, vale davvero la pena di leggere o rileggere il più celebre e il più riuscito dei suoi pochissimi racconti, "Casa d'altri". Un piccolo capolavoro narrativo. Eugenio Montale, scrivendone nel 1954 sul "Corriere della Sera", lo aveva definito "un racconto perfetto". Anni dopo, nel 1971, Giorgio Bassani scrisse che "Casa d'altri" è un capolavoro. Molti sono stati, via via nel corso dei decenni, i critici e gli scrittori che hanno confermato questo giudizio di eccellenza riservato a un racconto che era stato pubblicato nel 1952, pochi mesi dopo che il suo quasi sconosciuto autore era morto, appena 32enne, a causa di una leucemia fulminante. Aveva scritto pochissimo, nascondendosi dietro a svariati pseudonimi: anche Silvio D'Arzo non era il suo vero nome, lui si chiamava Ezio Comparoni, era nato nel 1920 (un secolo fa), figlio di ragazza madre, a Reggio Emilia. "Casa d'altri" è un racconto, una stesura in prosa ma piena di accenti lirici, una storia quasi senza storia, una narrazione tesa e misteriosa, un succedersi scarno e scabro di dialoghi concisi, un accendersi continuo di luci e di colori: la pagina di D'Arzo è quasi una tavolozza, lo scrittore possiede la mano dell'artista che crea, ricrea e trascende paesaggi. Siamo in un villaggio montano dell'Appennino emiliano, staccato dal mondo, raggiungibile soltanto a piedi : pochi abitanti, sparsi in frazioni remote, case primitive di pietra, poche luci rossastre di fuochi a sera, gente aspra, quasi più capre che uomini e donne, un autunno e un inverno freddi, pendii scoscesi, un torrente profondo. Ecco un solo assaggio, fra i molti, della scrittura di D'Arzo: "C'è quassù una cert'ora. I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu: nel primo buio le donne se ne stanno a soffiar sui fornelli chine sopra il gradino di casa, e i campanacci di bronzo arrivan chiari lì giù fino al borgo. Le capre si affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri". I protagonisti del racconto sono di fatto due, con il concorso di alcune comparse in ombra. Ma anche quei due sono rivelati soltanto per tocchi incompiuti, lasciando segni incerti. Il protagonista principale è il prevosto del paese, un prete anziano che negli anni ha visto stemperarsi illusioni e ardimenti teologici e vive con asciutta e quasi ruvida umiltà il suo ministero, cercando di guardare senza pretese le vite grame dei suoi parrocchiani. Un giorno una anziana donna, più vecchia della sessantina d'anni che porta sulle spalle affaticate. quasi furtiva e inselvatichita (ed ecco il secondo personaggio) fa la posta al prete e cerca di comunicargli qualcosa. La vecchia Zelinda è povera, possiede soltanto una capra, fa la lavandaia ogni giorno nell'acqua fredda del fiume. Ha un suo cruccio da confidare al prete, il quale sa bene che deve, che dovrebbe prendere sul serio quel grido muto che gli viene rivolto. Infatti il prevosto dice fra sé: "se il tuo mestiere è interessarti di tutto, comincia intanto a interessarti di uno: non di più che uno solo. Fino in fondo, però, fino alla radice a dir poco. Non c'è mezzo migliore così per interessarsi sul serio anche di tutti quegli altri". Ma poi le cose, si sa, non vanno mai di pari passo con il proposito migliore del cuore. Ci sono timori, reticenze, incertezze, diffidenze, timidezze esistenziali, ombre nell'animo. Basta: questo è un racconto da leggere e basta. Einaudi lo ripubblica da anni, assieme ad altre poche brevi prose di questo scrittore dalla vita troppo breve.
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