Circolo dei Libri

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01maggio
2020

Giorgio Montefoschi

La nave di Teseo

Un "primo amore" che resta un amore per sempre, nelle sue intermittenze, nelle lunghissime assenze, nell'irrompere di altri destini che tuttavia non annullano l'incompiuto ma non estinto destino di quell'amore. E' questa, in sintesi, la storia dell'ultimo romanzo di Montefoschi, una storia senza tragedie dietro gli angoli ma con sentimenti e sofferenze e passioni alle svolte delle stagioni e degli anni. Il tutto raccontato dalla scrittura accurata, realistica, ricca di luoghi e luci e gusti, di questo scrittore così originale, così riconoscibile. La storia, dunque, di un amore sconfitto che tuttavia non muore, un viaggio sentimentale dentro la giostra degli anni, dalla giovinezza post-adolescenziale negli anni "˜60 alle soglie della vecchiaia. Matteo e Livia si distaccano ma si amano per tutta la vita. Già visto? Forse. Ma bisogna saperlo raccontare e Montefoschi lo racconta con precisione, delicatezza, incanto e disincanto. Ho già scritto in passato che Giorgio Montefoschi divide: può piacere o non piacere, può intrigare oppure persino rendere diffidente o restìo il lettore che non voglia abbandonarsi alla modalità originalissima della sua scrittura. Io trovo che ci sia in essa un magnetismo avvolgente, quasi una musicalità morbida, fatta di motivi ripetuti, brevi passaggi e raccordi insistiti dentro un realismo puntiglioso di dettagli. Un vezzo singolare della sua prosa precisa è quello di darci tutti i dati topografici di ogni scena, in una minuziosa cadenza che si trasforma in un sottofondo melodico per la scansione dei gesti e dei dialoghi: di ogni spostamento dei protagonisti sappiamo gli orari, spesso addirittura le date, le strade percorse, gli angoli di vie e di piazze, i colori del cielo, la corsa delle nuvole, e poi i bar, i chioschi, i luoghi e gli interni delle case signorili dentro una Roma rintracciabile come in una mappa accuratissima, in cui si muove una ricca borghesia un po' estenuata, colta, di buon gusto, sfibrata, talvolta neghittosa. Siamo nei luoghi montefoschiani, i quartieri alti e borghesi, le zone dei Prati, del Pincio, di quieti piazzali alberati, di strade tranquille, e poi gli slarghi, i viali, i colli, i parchi, i vicoli di tutta Roma conosciuta a memoria e perlustrata in Vespa o a piedi: certi spostamenti abituali sono ridetti decine di volte, creando una familiarità complice di gesti quotidiani. C'è anche qualche puntata in un casale di vacanza in campagna, fra erba alta e pini. Sappiamo tutto, dei fondali narrativi: le luci soffuse e arancioni dei lampioni nel crepuscolo, i colori delle stagioni e la geografia circostanziata dei quartieri ricchi e placidi, con tutta la nomenclatura precisa. Anche i pranzi, le cene, le colazioni, i cibi, le bevande, sono descritti in un loro realismo minuto. Montefoschi, che ricorda per certi versi l'intimismo scabro di un Cassola ma in altro ambiente sociale, non dà corda ad enfasi o a colpi drammatici di trama ma è piuttosto il narratore quieto, in presa diretta, di una quotidianità minima che a colpi di dettagli, odori, suoni, voci, dialoghi, sentimenti, giorni, anni, scandisce il tempo. La vita. In questo caso la vita di Matteo, il quale ha i suoi genitori e poi la sua Anna, il suo Pietro, la sua Maria, i suoi amici, ma ha anche sempre la sua perduta e riacciuffata e di nuovo perduta e ripresa Livia. E i morsi della mancanza e della nostalgia e quelli della gelosia. E poi la vita di Livia: più sfuggente, enigmatica, presente e assente, ritrosa come una Micòl Finzi-Contini romana e poi nemmeno più romana.