L'amore ai tempi del colera
Gabriel Garcia Marquez
Mondadori
"Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati". Comincia così "L'amore ai tempi del colera", che io ritengo forse il più bel romanzo di Gabriel Garcia Màrquez, morto giovedì 17 aprile dopo un appannamento lungo di salute che aveva evocato, come ineffabile simbolo, due altri celebri titoli suoi: "L'autunno del patriarca" e "Cronaca di una morte annunciata". Certo, il suo più celebre romanzo, che si iscrive tra i grandi libri del Novecento, resta "Cent'anni di solitudine", che colpì il mondo letterario e poi milioni di lettori sin dal suo celebre esordio: "Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio" (pochi come Marquez hanno saputo imporre agli incipit la carica profetica di un presagio di sostanza e di epilogo: "Il giorno che l'avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo", esordisce "Cronaca di una morte annunciata"). "Cent'anni di solitudine" vuol dire scoperta di magia e memoria, affabulazione, storie nella Storia, il favoloso e realistico mondo di Macondo, puntino inventato sulla carta della Colombia divenuto luogo universale della letteratura. Ma credo che in "L'amore ai tempi del colera" Marquez abbia maturato una misura narrativa perfetta, mettendo nella sua prosa sontuosa il filo fondamentale della passione amorosa. Al costo di una indulgenza qua e là compiaciuta per un libertinismo ardito, Marquez riesce a scandire tutti gli struggimenti, le incongruenze, le disperazioni e i miracoli che corrono negli amori fra gli uomini e le donne. E' una storia strana di fedeltà e pazienza da parte di un uomo, Florentino Ariza, che da giovane si innamora perdutamente di una ragazza, Fermina Daza, figlia di famiglia ricca e di lei gelosissima. Fermina si accorge dello sguardo amoroso di quell'uomo, lo intercetta e forse lo ricambia. Ma sposa un altro e con lui tesse la storia di una famiglia e di una vita. Eppure Florentino Ariza non ha mai cessato di amarla e di attenderla: per cinquantun anni, nove mesi e quattro Giorni Florentino ha perseverato nel suo amore. Finché un giorno, dopo tanti, tantissimi anni"…Come sempre, mi fermo qui. Il romanzo è denso, armonioso, malinconico, sensuale, impetuoso. Vi scorrono dentro le esistenze di Florentino e di Fermina e di tutti i comprimari di una storia lunga, molto abitata e vissuta e agitata. A innervare tutto il romanzo è l'amore: quello idealizzato e custodito e quello illusorio, solo sensuale, oppure ferocemente prepotente (con una certa spregiudicatezza: "il cuore ha più stanze di un postribolo: c'è posto per tutti"). L'amore punteggia il libro con i trasalimenti dei diversi protagonisti che lo percorrono. Di una donna con desideri ma senza illusioni si dice: "non ebbe mai la pretesa di amare né di essere amata, pur avendo sempre la speranza di trovare qualcosa che fosse come l'amore, ma senza i problemi dell'amore" (che è un pensiero bello e rinunciatario su desiderio, egoismo, paura, speranza nelle cose amorose). Anche in questo romanzo - ma soprattutto qui - Marquez è affabulatore nel suo carnoso realismo, prestigiatore di parole, solcatore dei mari delle memorie. E del resto nella sua corposa autobiografia (che vale un romanzo: "Vivere per raccontarla") Marquez scrive: "La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla". Che mi pare una splendida definizione della vocazione di uno scrittore vero a vivere i giorni e desiderare che passino per poterli raccontare. E così plasmarli, riacciuffarli, per custodirli in una specie di eternità incompiuta. Ieri l'altro Gabriel Garcìa Màrquez è arrivato finalmente a Macondo, dove si fermerà per sempre nel mistero del tempo veramente eterno.
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