Kazuo Ishiguro
Einaudi
Julian Fellowes, scrittore colto e raffinato, creatore della saga televisa Dowton Abbey (di grande qualità) deve essersi certamente ispirato, nell'inventare il suo inappuntabile maggiordomo Mister Carson, al Mister Stevens del romanzo "Quel che resta del giorno", di Kazuo Ishiguro. Carson, meno inesorabilmete sacrificato (a costo della propria felicità, come invece accade a Stevens) al sacro dovere della professione, incarna nondimeno tutta la britannicità ossequiosa del ruolo del maggiordomo classico che possiede il personaggio del romanzo. Ishiguro è stato insignito quest'anno, 2017, del premio Nobel per al letteratura.Quando si seppe, a ottobre, la cosa, sulle prime tutti si dissero: il Nobel quest'anno è andato a un giapponese. Di fatto Ishighuro ha nome nipponico, è nato in Giappone nel 1954 ma quando aveva quattro anni i genitori lo portarono in Inghilterra e lì è cresciuto e si è totalmente imbevuto di lingua e cultura inglesi ed è diventato cittadino britannico. Kazuo Ishiguro è dunque uno scrittore inglese e basta. E lo si capisce anche dalla prosa sontuosa, volutamente classica e britannica fino alla caricatura, di questo romanzo dove a parlare in prima persona è, per l'appunto, un maggiordomo. Mister Stevens è da anni al servizio di Lord Darlington, negli anni Venti, Trenta, Quaranta del Novecento. Per lui la professione è la missione, la missione è la vocazione, la vocazione è la sua stessa vita. Stevens persegue il mito del concetto di "dignità" di un maggiordomo. E' dignitosa, crede, la cieca adesione al bene della magione e al suo "valore" a prescindere. E poco importa se il Lord, il quale aveva combattuo contro i tedeschi nella Prima Guerra ma poi aveva compianto l'umiliazione (forse eccessiva) subita dalla nazione e dal popolo di Germania, mostra una benevolnza magnanima per tutto quello che è tedesco e ospita volentieri nella sua dimora l'ambasciatore di Berlino a Londra, un certo von Ribbentrop"… E poco importa se Lord Darlington deve (e vuole) separarsi da qualche domestico solo perché questi è ebreo (salvo ravvedersi, ma molto tardi). Il Lord ha semre ragione, importante è la inappuntablità dell'edificio (ma anche del sistema, di una classe, dei pilastri della vecchia Inghilterra, dei resti dell'Impero britanico che sta epr svaporare"…). Ma Mister Stevens sacrifica sull'altare della dignità e della perfezione vocazionali persino ogni ipotesi di felicità sentiementale. Il rapporto con la governante della casa, Miss Kent, è esemplare, lapidario: niente emozioni di cuore, prego, siamo inglesi"… Soltanto verso la sera sera della vita, quando è poco "quel che resta del giorno", quando il padrone di Darlington Hall è cambiato (è un neo ricco americano) e Stevens intraprende un lento viaggio in automobile verso la Cornovaglia, egli traccia un bilancio malinconico della propria vita. Si accorge di aver ubbidito solo a un suo concetto di dignità, di aver prirvilegiato lo sfondo formale e sociale rispetto ai sentimenti privati, suoi e delle persone con cui ha a che fare. La devozione alla causa, la sacralità di una ideologia della vocazione ( e qui la metafora vale per tutti gli eccessi ideologici) erano più importanti del rischio della libertà, dell'azzardo autonomo di un giudizio sulla realtà, della ipotesi soggettiva di una felicita. Forse resta ormai soltanto il tempo per una breve, addoclta nostalgia. La scrittura, s'è detto, è sontuosa, come si addice a un maggiordomo di quasi cento anni fa: sinuosa, ampollosa, fatta di ellissi e perifrasi, rotonda, con circonlocuzioni per dire le cose in modo indiretto. La Upper Class britannica raccontata da uno scrittore inglese che fu giapponese da piccolo.
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