The golden spur
Dawn Powell
Fazi
Come già in "Café Julien" (Fazi) anche qui c'è il nome di un bar, il Golden Spur appunto, sempre a New York, anch'esso meta di scrittori in cerca di editori e di furbe ragazze alla ricerca di uomini provvisti di sex appeal ma soprattutto di un portafoglio gonfio. Il protagonista è Jonathan Jaimison, un giovanotto che giunge nella mitizzata New York dall'Ohio. Per lui la grande città è sogno e desiderio e al tempo stesso il luogo in cui cercherà di scoprire chi sia stato il suo vero padre: sua mamma infatti, prima di tornare in provincia a sposare il suo mediocre fidanzato ufficiale, aveva lavorato come segretaria a New York, entrando in un emozionante giro di alcuni eccentrici personaggi che l'avevano affascinata. Prima di ripartire aveva fatto in tempo a concepire un figlio con un uomo misterioso e ad assegnarne la paternità ufficiale al fresco marito"… Morta la madre, il giovane Jonathan scopre che il suo papà vero sta da qualche parte a New York, dove la mamma fu per poco tempo veramente felice forse. Con in mano un prezioso diario materno, egli giunge nella mitica città per cercare la verità su di sé. La trama si inserisce in un quadro ambientale divertente e balzano: Dawn Powell coglie personaggi, ambizioni e amori dento il piccolo cerchio crepitante degli artisti (qualcuno baciato dalla fortuna, la maggior parte falliti) che scrivono, dipingono, parlano, si azzuffano, si cercano a New York. Ci sono giovani donne che usano la bellezza per essere amate ma soprattutto per sbarcare il lunario, c'è il pittore di successo che seduce tutte le donne e le abbandona, c'è la ragazza dalla doppia identità che fa innamorare Jonathan"… Il ritmo del racconto e dei dialoghi è scintillante, non mancano graffi feroci e comicità intelligente. Con qualche affondo esistenziale, come quando si parla di certo egoismo esistenziale di alcuni vecchi, timorosi di perdere tempo occupandosi dei giovani: ""…dopotutto c'era del lavoro da fare e la vita da vivere. I giovani non riuscivano mai a capirlo. Ma era rimasto così poco tempo, ed era come se non si osasse smettere di correre nemmeno per un minuto. Non si correva per vincere il premio come si faceva in gioventù. Gli occhi sempre più opachi non distinguevano più se si era raggiunta la meta o no. Si continuava a correre perché alla fine quello era l'unico premio rimasto: essere vivi, in corsa"…". La bella postfazione è di Gore Vidal.
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