Una giornata al monte dei pegni
Elena Löwenthal
Einaudi
Al Monte dei pegni ognuno porta i suoi piccoli oggetti cari da scambiare con denaro di cui si ha urgente bisogno ma soprattutto si porta la propria pena privata, il proprio cruccio doloroso, la fatica di una sofferenza. Difficile infatti pensare che uno si rechi al Monte dei Pegni (non a caso chiamato anche Monte di Pietà) a cuor leggero quando ci va per vendere o svendere (nella speranza spesso vaghissima di riscatto in tempi migliori) qualcosa di suo: catenine d'oro, gioielli, argenteria, oggetti di cara memoria magari lasciati da qualcuno che non c'è più e che sembra di tradire consegnando allo sportello il suo lascito affettivo. Al Monte dei pegni scorre il corteo della "pietas" e della sconfitta, della fatica di vivere. Uno sguardo attento e compassionevole a quel rosario di gesti e discreti, dignitosi dolori privati l'ha rivolto per un giorno Elena Löwenthal, scrittrice di cultura ebraica e fra l'altro ottima e decisiva traduttrice in italiano, dall'ebraico, dei maggiori scrittori israeliani viventi. Löwenthal è anche una intellettuale seria, una coscienza attenta dell'identità ebraica culturale, religiosa, civile. Questa volta però la scrittrice non parla affatto di cultura ebraica ma ci racconta, in un dolente e anche delizioso piccolo libro che da qualche tempo volevo raccomandare, la cronaca del viavai di gente che in una giornata al Monte dei Pegni porta, chiusi in buste o in cartellette o in zaini, i piccoli tesori cari di esistenze e anni, per averne denaro: ma quegli oggetti sono segni di vita che fu bella e cara e benestante e ora è ferita, sono parte di sé, sono carne viva dell'esperienza, degli affetti perduti. Al Monte di Pegni ognuno lascia brandelli inanimati ma cari di sé, ogni oggetto viene valutato dai funzionari gentili ma sbrigativi, ogni piccola cosa viene giudicata e valutata e così sotto il vetro dello sportello passano anche i ricordi cari di vita, quasi che anch'essi possano essere valutati e "pagati". Naturalmente ciascuno, portando la medaglietta d'oro della mamma morta, oppure un caro anello o la brocca d'argento che troneggiò nel salotto per decenni finché il salotto fu felice, o il tappeto persiano sui cui si mossero mille passi giovani e belli, spera di potersi ripresentare dopo alcuni mesi, avendo un po' di fortuna, con il denaro del riscatto. Ma poi, si sa, spesso la cosa non riesce davvero e l'oggetto viene definitivamente perduto e affidato all'anonima asta che lo disperderà nel mondo. Löwenthal ci racconta persone, gesti, oggetti, malinconie. Ci sono personaggi strani, avviliti o dignitosi, goffi o corrucciati, ognuno portatore del suo piccolo oggetto e della sua piccola pena. A parlare, in loro nome, è la "roba": argenti, catenine, braccialetti, anelli, tappeti, vasi, pellicce, scaglie di vita che per bisogno vengono consegnati , sperando che sia solo un deposito temporaneo. Elena Löwenthal ha spiato la fila ordinata che aspetta il proprio turno davanti allo sportello e ce ne racconta il gusto amaro degli addii alle cose che sono addii a pezzi della propria storia. Naturalmente le cose sono inanimate, sono solo oggetti: ma noi attribuiamo a loro una polpa di vita che soggettivamente insuffliamo dentro di loro: in realtà "le cose tacciono, siamo noi che ci illudiamo di ascoltarle". Eppure a certe cose di casa siamo legati come se fossero animate, ci sono vecchi quadri o medagliette e vasi che ci dicono parole perdute di nonni, mamme e padri scomparsi, amori svaporati. In questo piccolo romanzo di compassione Elena Löwenthal sorprende una umanità ammaccata, ai margini ma desiderosa di una dignità e soprattutto di poter riscattare un giorno, se non proprio gli oggetti perduti, almeno alcuni spiragli di possibile, residua felicità. Il libro è scritto con stile bello, sobrio, sensibile, accorto nell'afferrare emozioni, turbamenti, pensieri segreti.
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