Una spola di filo blu
Anne Tyler
Guanda
Non esito a paragonare Anne Tyler, per timbro e metodo e per la modalità di sguardo esistenziale, ad Anton Cecov (anche se il grande russo condensava tutto nella sintesi perfetta del racconto e la Tyler allunga la narrazione nella forma del romanzo). Nemmeno questa volta la scrittrice ci delude. Cambiano le sue storie ma non cambia lei, attenta osservatrice (quasi come un'entomologa che studia una specie) dei comportamenti umani consueti, scanditi nell'allure di commedia e di drammaticità della vita quotidiana. Tyler racconta sempre battiti di esistenze normali, o quasi: storie di famiglie con ammaccature o stranezze, coppie ai bordi della stanchezza, vite individuali eccentriche ma non troppo. Questa volta siamo in una saga familiare che abbraccia tre generazioni colte in una unità di luogo: la vecchia casa di legno con il grande portico, la "casa dei Whitshink" (così si chiama la famiglia). Siamo sempre a Baltimora, sempre ai bordi della città, in un quieto magma di provincia americana fuori da ogni grandezza urbana e soprattutto da ogni attualità nota (questa volta un solo accenno, anche ironico, a Michelle Obama rivela la datazione del romanzo e null'altro). Fedele al mio metodo, non voglio rivelare nulla della trama, che poi non è fatta, come sempre accade in Anne Tyler, di eventi clamorosi ma soprattutto di battiti quieti (ma non per questo meno sensibili, meno emozionanti o meno dolorosi). Non accadono molti grandi fatti, accade semplicemente la vita. Anne Tyler mescola i tempi con un'invenzione che si disvela soltanto a metà romanzo, quando dopo una lunga narrazione tutta al presente, che fotografa una numerosa, laboriosa, eccentrica e complicata famiglia americana, improvvisamente torna all'indietro, ripartendo da giovinezze generazionali, per fluire poi di nuovo in avanti: così facendo attraversa i tempi del tempo della sua storia, dilata i confini della sua saga viaggiando fra presente e passato con un moto d'onde. La normalità quasi liturgica della consuetudine dentro l'abbraccio della vecchia casa viene ciclicamente perturbata dall'andirivieni ansiogeno di quello tra i figli di Red e Abby (la coppia centrale di sposi di lungo corso e di genitori ) che più assomiglia a un figlio prodigo: scompare, tace, riappare, incostante e fedele al tempo stesso. Commovente e divertente il rito, sempre uguale da decenni, della breve vacanza estiva al mare della tribù (sempre una settimana, sempre nella sessa casa in affitto mentre anno dopo anno i bambini crescono, si fidanzano, fanno figli a loro volta e si ripresentano, tutti insieme, ogni volta, sullo stesso pezzetto di spiaggia"…). Abby, la madre, racconta spesso di quando si innamorò di Red, e ricorda persino l'ora e il tempo che faceva, come in questa bellissima scena di un crepuscolo estivo sotto il portico: " -Era uno splendido pomeriggio tutto giallo e verde, con un po' d'arietta- attaccò Abby. Cominciava sempre così, esattamente con le stesse parole, ogni singola volta. Sotto il portico tutti si rilassarono, i volti si distesero e le mani posate in grembo si sciolsero. Era così riposante stare lì seduti con la famiglia, con gli uccelli che chiacchieravano sugli alberi, il verso dei grilli, il cane che russava ai loro piedi e i bambini che gridavano - Tana! Ho detto tana!-". Naturalmente poi c'è di più: ci sono le trafitture della vita, le stravaganze dei caratteri, le parole non dette o dette troppo tardi dentro il groviglio degli affetti familiari, e poi i moralismi e le piccole ribellioni colti nella apparentemente assonnata provincia americana (quasi un quadro di Edward Hopper) dove tutto scorre calmo ma dove comunque batte il cuore inquieto della condizione umana.
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Fabio Genovesi
Mondadori