Circolo dei Libri

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23gennaio
2024

Paolo Cognetti

Einaudi

Metti un western un po’ cupo ma con un filo di bene e un bel respiro di natura, mettilo non nell’Ovest o nel Nordamerica ma nella bella Valsesia di Piemonte, ed ecco la sintesi di questo nuovo romanzo di Paolo Cognetti, il quale rimane volentieri, come scrittore e anche come residente (anche se abbastanza pendolare) sulle sue montagne valdostane. Cognetti non fa mistero dell’ascendenza che la narrativa americana (da lui praticata e amata e ben conosciuta) ma anche la musica e il cinema, hanno avuto sulla genesi e sulla stoffa di questo romanzo dell’autore di “Le otto montagne” e “La felicità del lupo” (ma prima del successo di critica e di pubblico c’erano stati altri libri, fra cui “Sofia si veste sempre di nero e “Il ragazzo selvatico”). Sembrano in effetti dentro una narrazione o sceneggiatura da “nuova frontiera” del west o delle grandi foreste del nord la natura selvaggia e le movenze dei personaggi del romanzo. È il caso dei caratteri ruvidi dei due fratelli Luigi e Alfredo, il primo guardia forestale in Valsesia dove è nato e cresciuto, il secondo tornato in valle dopo anni di assenza in Canada, dove ha lavorato al taglio di alberi nei boschi giganteschi di là. Li unisce un’infanzia dura e rurale, con la memoria condivisa di una cascina in altura (il luogo dell’anima ma anche sfondo di dramma) e di un padre con il quale la sorte non è stata benigna. Quel padre comunque aveva piantato davanti alla cascina due alberi, di diverso “carattere”, per simboleggiare la nascita e poi la crescita di quei due figlioli. E i due, affratellati ma diversi come i due alberi, si ritrovano nella loro Valsesia: Luigi ha avviato un amore buono con una villeggiante colta (a differenza di lui) e sensibile: quell’amore tiene. Alfredo invece è più ferito da una sua solitudine cresciuta in lontananza, forse è tornato per recidere fili e ripartire. Un’altra cosa accomuna i due fratelli: l’incupita passione per la bottiglia: si beve a fiumi, nel romanzo, l’alcol è salvezza e abbrutimento, consolazione e perdizione. L’andatura del romanzo, che inizia con le vicende di due cani (animali e alberi sembrano qui avere un’anima nel libro) che pensano, evoca appunto il taglio brusco e ruvido che chiameremo “americano”: ci si immagina Luigi e Alfredo comparire con camicie pesanti a scacchi colorati e scarpe robuste, in movimento fra boschi, pascoli, pompe di benzina e banconi di bar, in quella Valsesia azzannata da capannoni e periferie squallide in basso ma sempre più pura su verso il fiume che è ancora torrente e ancora più su verso spazi e natura incontaminati. Cognetti in chiusura di libro confessa il suo debito americano: con la musica di Springsteen ma anche con la vena di scrittura di autori come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Steinbeck. Ma anche altri nomi di scrittori, e di registi. E poi c’è una specie di ballata sugli alberi, che hanno linfa di vita vera. Il risultato è un lungo racconto “country” nella bella terra di Valsesia, che dai borghi di pianura e dai villaggi di montagna di radice walser sale su fino alla cattedrale alta e chiara del Monte Rosa. Ritmo aspro e rude e un residuo filo amoroso fra memoria e speranza sono i connotati di un romanzo che restituisce Cognetti, dopo la parentesi animalista e green di “La felicità del lupo” a una meno sentimentale rappresentazione del faticoso connubio fra le solitudini umane e l’ineffabile natura della terra.