Circolo dei Libri

Per condividere con altri il gusto della lettura, che per principio è individuale ma poi può anche farsi compagnia.

14marzo
2025

​Lev Tolstoj

Rizzoli

Ha appena 23 anni il giovane conte Lev Nicolevich Tolstoj quando, nel 1851, trovandosi in servizio militare quale ufficiale nelle truppe russe impegnate nel Caucaso, manda all’allora molto noto poeta Nekrasov, direttore della maggiore rivista letteraria del tempo, un plico con il manoscritto di una prima parte di un ciclo di racconti intitolato “Le quattro età dello sviluppo”. Nekrasov, che non conosce quel giovane, fiuta subito il talento. Pochi mesi dopo viene pubblicata una prima parte, “Infanzia”, cui seguiranno poi poi “Adolescenza”, e “Giovinezza”. La quarta parte non uscirà più, Tolstoj ormai si è nel frattempo involato nella sua più corposa produzione. Erano bastate infatti, fra il 1852 e il 1854, quelle prime prose vive, intense, piene di vita ronzante e di perspicacia appassionata nella memoria, per rivelare la nascita di un gran talento della scrittura che poi diventerà “il grande vecchio”, lo “scrittore-genio” che sappiamo. Si capisce (lo si saprà) che questi tre racconti contengono moltissime vicende autobiografiche: Tolstoj cava fuori da se le proprie memorie di infanzia e adolescenza, le mescola con altri racconti di altri amici, impasta realtà e finzione come si addice all’immaginazione possente di un creatore puro che tuttavia attinge sempre all’esperienza. Chi ama il Tolstoj delle grandi opere si sorprenderà lietamente nello scovare, in queste prime prose dello scrittore, tutta la potenzialità diremmo ancora in boccio ma già fiorente della sua prodigiosa capacità di narrazione pura e possente. In questi tre romanzi brevi c’è già tutta la vivezza in presa diretta, c’è lo guardo eccezionale dell’autore che sa, toccando lo strumento della scrittura e catturando la memoria, restituire, quasi resuscitare la fisicità e la pienezza della realtà. Tolstoj, già da molto giovane, è un vero creatore: i suoi racconti infatti creano, come se fossero modellati nella creta della memoria e delle parole, semplicemente e vividamente, il corso dei giorni, dei mesi, degli anni anni del bambino Nikolaj, che poi sarà ragazzetto, adolescente, giovane. Il battito dettagliato della quotidianità è concreto, colto dal vivo, realissimo: e tuttavia esso si distende dentro il lento fluire del tempo che inesorabilmente cresce e si muove con la placida progressione di un grande fiume. Che è poi il fiume di una vita. Non c’è qui l’intreccio di una trama drammaturgicamente dispiegata. Ma c’è, percepibile, la trama della vita che accade. Lasciando al lettore il piacere di tuffarsi in questi racconti di “educazione alla vita” (Tolstoj confesserà di avere reso un appassionato omaggio al suo idolo di allora, Jean-Jacques Rousseau), cito un solo esempio, ma lampante, della ricchezza espressiva a trecentosessanta gradi della prosa tolstojana. Sono i primissimi, remoti ricordi d’infanzia. Siamo nel pieno dell’estate, nella vasta dimora rurale della ricca famiglia (tale e quale alla vera Jasnaja Poliana di Tolstoj, che sarà anche Otradnojé, la tenuta di campagna dei conti Rostov, della Natascia di “Guerra e pace”…). È il tempo della mietitura e nei campi dove ferve il lavoro passano anche i cacciatori con cavalli e cani, diretti al bosco. Il ragazzino si guarda introno, quello è il solo paesaggio che lui conosce, il resto non esiste ancora: “Il raccolto del grano era nel suo pieno. Il campo sterminato, di uno splendido giallo, era limitato solo da una parte da un’alta, azzurreggiante foresta che allora a me sembrava il luogo più lontano e più misterioso di là dal quale o finiva il mondo o cominciavano paesi inabitati”. Di quel piccolo mondo antico isolato da un altrove inesistente, il ragazzino Nikolaj coglie tutto (piccolo, vede da vicino i dettagli, ma con lo sguardo pieno di stupore nuovo abbraccia tutto quel che lo circonda) come in un grandioso affresco. Perché la scrittura di Tolstoj è parola ma anche pittura, ma anche musica, ma anche anima che beve la realtà:

“Le voci della gente, lo scalpitìo dei cavalli, il rumore dei carri, l’allegro fischiare delle quaglie, il ronzìo degli insetti, che in immobili sciami brulicavano nell’aria, l’odore dell’assenzio, della paglia, del sudore dei cavalli, migliaia di tinte e di ombre diverse che il sole ardente riversava sul giallo vivo delle stoppie, le azzurre lontananze del bosco, le nuvole d’un bianco lilla, le bianche tele di ragno che volavano in aria o si adagiavano sulle stoppie: tutto questo io vedevo, udivo, sentivo”. Nikolaj dunque vedeva, udiva, sentiva. Vedeva con gli occhi, udiva con le orecchie, sentiva con la mente, con il cuore, con la sensibilità eccezionale che sarà il nutrimento espressivo di uno dei più grandi narratori di tutti i tempi.