Circolo dei Libri

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27ottobre
2023

Natalia Ginzburg

Einaudi

"A un certo punto della vita, tutto quello su cui posiamo gli occhi per la prima volta ci è estraneo. Lo guardiamo da turisti, con interesse ma freddamente. Appartiene agli altri". C'è un punto della vita, dice Natalia Ginzburg nel romanzo "La città e la casa", in cui si appartiene a qualcosa che ci ha costituito, persone, case, cose, luci di una città, orizzonte di un paese. La radice primaria di una casa, di un luogo da cui si viene: è il "nocciolo - spunto" del secondo romanzo epistolare di Natalia Ginzburg, del 1984 (il primo, "Caro Michele" del 1973, è epistolare misto, lettere e narrazione). Giuseppe, il protagonista d'avvio del romanzo, è un signore sulla cinquantina, benestante, solitario, abitante in una vecchia casa che gli appartiene da sempre, un po' annoiato: una vita come spenta, amici e affetti cristallizzati, una donna di cui è stato amante e con cui ha ottimi rapporti ma che sta col proprio marito buono e i figli, un manco di prospettiva. Ebbene, Giuseppe decide di lasciare tutto e di partire per gli Stati Uniti, dove vive un suo fratello, andando a stare con lui. Basta, si cambia. Giuseppe sa bene che partendo a quell'età avrà lo struggimento della perdita, lo strappo dalla radice. Ma sa che bisogna buttarsi, costi quel che costi, se si vuole cambiare. Scrive al fratello: "Sono molto contento di partire"…". E poche righe sotto: "Sono anche molto dispiacente di partire"…". Ecco il segno di contraddizione, la fissura fra il balzo da osare per rigenerarsi e mutare e la nostalgia malinconica di abbandonare tardi il territorio temporale decisivo della propria vita. Le lettere poi si moltiplicano, quelle di Giuseppe a Ferruccio in America e più tardi quelle dall'America di Giuseppe espatriato agli amici rimasti in Italia. Dove rimane anche un figlio di Giuseppe, un po'distaccato e strano, omosessuale, un figlio che il padre non ha mai capito davvero. Appaiono, come mittenti o destinatari, e viceversa, anche Lucrezia, Piero, Albina, Egisto, Serena. Gli anni passano, accadono cose, la vita lascia i suoi segni, ci sono stanchezze, appannamenti, ultimi palpiti di possibili e sfuggenti amori, drammi, quiete disillusioni, lo scricchiolìo degli anni su corpi e animi. Restano le tracce del passato, resta la nostalgia di una casa, della dimora come tana e nido, sicurezza e bellezza, scatola di ricordi. Giuseppe pensa alla sua, venduta. Ma anche alla bella casa in campagna dei suoi amici (vabbè, l'amante, il marito dell'amante, i figli dell'amante di cui uno magari non è del marito ma suo di Giuseppe, chissà). In quella vecchia casa erano risuonate voci di allegria, di litigi, d'amore, e suoni di giochi e generazioni: "Porto stampata nel cuore la vostra casa, grossa, gialla e vecchia, che voi chiamate "˜Le Margherite', chissà perché. Il portico, la legnaia, il piazzale davanti alla casa e le due magnolie. Porto tutto stampato nel cuore. Lucrezia qualche volta dice che è stufa di quella casa, è stufa di stare in campagna, e vorrebbe che vi trasferiste altrove. Ma ha torto, è una bella casa e a comprarla avete fatto bene, dieci anni fa o quando è stato. Restateci, non andate mai via di là". Non andare mai via dai luoghi di cui si è fatti, perché meglio di come andò allora non potrà mai andare. E se si andrà via, si avrà per sempre il groppo di una nostalgia. Questa è una delle chiavi di lettura di un romanzo dove per il resto si intrecciano esistenze un po' stanche, ammaccate, nel consueto fondale di pacata amarezza caro alla Ginzburg. Il tutto reso con la sua scrittura apparentemente minimalista, fatta di brevi tocchi realistici e di minuta quotidianità, dentro cui si percepisce il respiro di profonde, estenuate delusioni.