2018
Joseph Roth
Adelphi, Rizzoli
La fine della Prima Guerra mondale, nel 1918 (una tragedia che costò milioni di morti) coincise con una mutazione profonda delle Nazioni d'Europa. Con la sconfitta del 1918 scomparvero l'Impero asburgico, quello tedesco del Kaiser e quello Ottomano. La dissoluzione dell'Impero degli Asburgo, soprattutto, significò per molti versi la fine di una civiltà. Era forse inevitabile che ciò succedesse, nel senso del vento della Storia (se mai ce ne sia uno), eppure quel declino di un'era conserva un suo fascino dolente. Cento anni dopo quel crollo di un Impero millenario, si può riandare a pagine che lo evocano. Esemplare è il romanzo di Joseph Roth, "La marcia di Radetzky", che di fatto è una malinconica elegia, fra rimpianto e realismo, di un mondo sontuoso che si andava sfaldando. Il tempo del romanzo è quello intorno al 1910, 1914, fino allo scoppio della guerra fatale. Francesco Giuseppe, "Sua Maestà Apostolica", Imperatore d'Austria e Ungheria, di fatto erede del Sacro Romano Impero, nel 1912 è un monarca stanco, vecchio. Era salito al trono ad appena 18 anni, bello e fiero, e il suo regno durerà ben 68 anni, fino alla morte nel 1916. Molti anni prima, quando Sua Maestà era giovane, nella battaglia di Solferino contro i francesi (18..) un suo soldato, buttandosi coraggiosamente addosso al monarca, gli aveva salvato la vita buscandosi al posto suo una pallottola: gravemente ferito, guarì; l'Imperatore, grato, lo promosse ufficiale e gli diede un titolo nobiliare: Joseph Trotta, contadino sloveno nella vita civile, diventa il barone von Trotta, e sarà chiamato "l'eroe di Solferino". In quei panni eroici e nobilitati egli si sentirà sempre poco a suo agio, sbalestrato in una condizione estranea alla sua radice. Suo figlio Franz entrerà moto meglio nel ruolo nobile e di ligio funzionario asburgico, erede morale e di fatto dell'eroe di Solferino. Egli assomiglia anche fisicamente, quasi come un atto di incarnazione somatica di fedeltà, all'Imperatore: il quale nel frattempo è invecchiato e il cui ritratto celebre (giacca bianca con fascia rossa, folte fedine grigie, forte sguardo azzurro) è appeso negli uffici, nelle caserme, nei saloni, nelle grandi magioni, nelle case private dello sterminato impero asburgico. Franz von Trotta è l'ubbidente e diligente "icona" della civiltà asburgica giunta al suo culmine: un impero che abbraccia nazioni, etnie, culture, lingue, religioni diverse, "federate" sotto l'unità simbolica ed effettiva dell'Imperatore. Von Trotta crede ciecamente in quel mondo che dà senso e scopo alla sua stessa vita. Eppure, in quella magnificenza imperiale raffinata, in quel luccicare di uniformi colorate e alamari, nel suono di marce musicali marziali e di feste, nelle minuziose distinzioni di classi sociali, nelle ritualità religiose e civili, già si annida il soffocato ma presente bacillo del declino, della decadenza inesorabile. Il figlio di Franz, Karl Josep von Trotta, destinato alla carriera militare e subito nominato sottotenente (è pur sempre il nipote dell'eroe di Solferino) rappresenta proprio questo disagio sottile, questa estenuata stanchezza privata e civile, questa inquietudine impalpabile, questo smarrimento di senso. Lo scrittore Joseph Roth è figlio di quell'impero che si sfalderà: ne proverà una nostalgia più sentimentale ed esistenziale che non politica: lo rimpiangerà, avrà nostalgia della monarchia asburgica quando essa sarà stata spazzata via, pur sapendone gli errori, lo sgretolamento di unità, gli anacronismi, le mancate intuizioni di cambiamento. Il romanzo, scritto nel 1932, è un cantico malinconico sulla decadenza annunciata di un mondo spossato, di una stanca bellezza di civiltà che già mostrava le rughe della propria inesorabile vecchiaia, del rintocco di morte. I destini personali riecheggiano il destino generale di un mondo che si dissolve.
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