2016
Elizabeth Strout
Einaudi
"Ci fu tempo, ormai molti anni fa, in cui dovetti trascorrere quasi nove settimane in ospedale. Succedeva a new York e la notte, dal mio letto, vedevo davanti a me il grattacielo Chrysler con la sua scintillante geometria di luci". Comincia così il nuovo romanzo di Elisabeth Strout, la scrittrice americana che nel 2009 vinse il premio Pulitzer con "Olive Kitteridge" (un titolo che la rivelò anche ai lettori di lingua italiana).A parlare è una donna, la quale rievoca quel suo lungo soggiorno in ospedale: "Era il mese di maggio e poi di giugno e ricordo che me ne andavo alla finestra a guardare il marciapiede sotto di me e a osservare le donne giovani - cioè della mia età - in abiti leggeri, a spasso nella pausa pranzo; le vedevo chiacchierare muovendo la testa, mentre le loro camicette tremavano riempiendosi di brezza. E pensavo che mai e poi mai, una volta dimessa all'ospedale, avrei potuto andare a passeggio senza ringraziare il cielo di essere di nuovo una di quelle donne, e per molti anni lo feci: mi rivedevo mentalmente alla finestra dell'ospedale e mi sentivo felice di calcare un marciapiede." Forse mai qualcuno aveva descritto così bene quell'impressione di separatezza provata da chi deve stare costretto in un letto di malattia rispetto alla banalità leggera e scontata della vita là fuori, quella della gente sana che cammina con l'incosciente passo di chi crede di avere tutto il tempo. La donna si chiama Lucy Barton e un giorno, da quel letto d'ospedale, riaprendo gli occhi dopo un sonno si ritrova lì davanti, seduta su una sedia, sua madre: che non vedeva più da anni. La madre la saluta chiamandola con il nomignolo che le dava da bambina ("bestiolina") e comincia a parlare come se non ci fosse stato quel lungo silenzio tra sua figlia che sta a New York e lei che abita lontano da qualche parte e che per qualche motivo aveva spento il contatto. La figlia, raggomitola nel letto (quasi in forma fetale) risente la voce della madre: ritrovata quella cantilena antica, le chiede di dire, di raccontare, di narrare cose e storie di gente del loro paese, del loro passato. E così per cinque giorni e cinque notti madre e figlia riallacciano la trama di un rapporto non facile. Affiorano brandelli di passato, colti in varie tappe del tempo delle due vite, dall'infanzia, alla giovinezza, all'età matura. Emergono storie di persone, antiche ferite non del tutto suturate, anni di stenti e povertà, amori, mutazioni. Il romanzo di Elisabeth Strout è una ballata che ha il suono dell'America profonda e quotidiana e impasta stagioni di vita e snoda il filo di ricordi, desideri e frustrazioni. E rivela figure intense, personaggi importanti oppure di contorno. C'è di mezzo la memoria. E, con la memoria, la vocazione insopprimibile di catturarla e salvarla. E dunque, per Lucy Barton, di diventare una scrittrice. Scrivere per ricordare. Ricordare per rivivere. Rivivere per capire e non far morire del tutto il tempo. La Strout è maestra proprio in quella sua originale capacità di intrecciare brani narrativi sparsi e legarli insieme in un unicum di racconto. Già in "Olive Kitteridge" aveva avuto l'intuizione bella di presentare una serie di racconti diversi e ben staccati tra di loro ma poi amalgamati dentro una unità di luogo (una cittadina sulla East Cost americana) e con una presenza femminile costante nel corso delle vicende e degli anni (talvolta protagonista, talaltra comprimaria: Olive Kitterdige, appunto): un romanzo frammentato? Dei racconti legati insieme?... Poi, dopo il grande successo di "Olive Kitteridge", in italiano sono stati tradotti "Amy e Isabelle" (molto bello), "Resta con me" e "I ragazzi Burgess" (notevoli anch'essi). Ecco ora questa nuova prova di una scrittrice che sa unire al realismo vivido, quasi sensitivo delle sue storie di gente comune uno stile di grande forza e rigore.
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