2017
Elizabeth Strout
Einaudi
Non è che in "Tutto è possibile" di Elizabeth Strout non succeda niente. Anzi, succedono cose, cose della vita, strappi, dolori, disillusioni, colpi anche duri del destino, quiete riconciliazioni. Ma succede, soprattutto, la vita stessa, con i suoi piccoli accadimenti che nondimeno investono e plasmano e mutano e feriscono oppure consolano le esistenze private. Nel tessere questo filo che a poco a poco trama le vite è bravissima Elizabeth Strout, scrittrice statunitense che il pubblico di lingua italiana ha cominciato a conoscere e ad apprezzare con "Olive Kitteridge" (premio Pulitzer 2009), dal qual è stata tratta una fortunata serie televisiva di qualità. Prima di allora Strout aveva pubblicato (tradotto anche in italiano: da leggere) "Amy e Isabelle". Dopo "Olive Kitteridge" seguirono "Resta con me " e "I ragazzi Burgess". Un anno fa uscì, sempre da Einaudi, "Mi chiamo Lucy Barton" (che qui presentammo). Bello, intenso. Vi si narravano, con un andirivieni ben modulato fra presente e passato, sprazzi di vita di Lucy Barton, appunto, che aveva auto una infanzia un po' difficile, strana, nel cuore dell'America profonda e rurale, prima di approdare a New York, dove diventerà una scrittrice. Allora, in filigrana, conoscemmo parecchio della vita di Lucy e, di rimando, del suo mondo provinciale da cui era partita (fuggita?). Adesso è appena uscito questo nuovo romanzo, "Tutto è possibile", che in qualche modo è la continuazione dell'altro. C'è ancora Lucy Barton, questa volta evocata (dapprima) da lontano: morti il padre e la madre, i fratelli rimasti al "paese" non vedono Lucy da anni ma sanno che lei è diventata una scrittrice affermata. Un giorno appare, nella vetrina dell'unica libreria della cittadina, l'ultimo suo libro, dove lei racconta cose di lì, delle sue radici. E i fratelli e le persone che hanno conosciuto Lucy in gioventù si ritrovano un poco, riannodano storie, avvenimenti, ferite, incontri. e f Queste tipiche saghe personali e familiari si intrecciano nel flusso narrativo di Elizabeth Strout, la quale racconta le "storie di vita" di uomini e donne (mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie, gente) sgranate lungo il corso degli anni, che lasciano i loro segni e i loro rimpianti e riaccendono memorie. Un giorno poi la stessa Lucy Barton torna a casa per una toccata e fuga, rivede i luoghi, i fratelli. Ma il tempo non torna mai indietro, il presente è sempre diverso rispetto a un "allora" da rielaborare. E, come dice un bel titolo di Gianrico Carofiglio, si sa che "il passato è una terra straniera". Elizabeth Strout si conferma narratrice di scrittura densa, avvolgente. Si appassiona alle vite degli altri, le fruga, le racconta, le distende lungo il flusso del tempo. Talvolta le mescola, come già era accaduto con "Olive Kitterdige". Lo sfondo di queste storie è un paesaggio piatto e rurale del Midwest americano, con ampie, sconfinate distese di campi di soia e di mais, le sue luci crudi o dolci nei cieli alti dei giorni afosi d'estate o freddi d'inverno. I personaggi vengono seguiti spesso quasi con una attenzione da telecamera: " Patty stava viaggiando con l'aria condizionata accesa al massimo; i chili di troppo le facevano sentire il caldo facilmente, e comunque era già fine maggio e la giornata era bella - lo dicevano tutti quanti, ma che bella giornata, oggi - anche se per Patty voleva dire troppo calda. Costeggiò un campo di mais alto solo qualche centimetro e uno di soia verdissima appena spuntata dal terreno. Poi attraversò il centro e seguì la strada che girava attorno a certe case fiancheggiate da esplosioni di peonie - Patty adorava le peonie - e poi la scuola presso la quale lavorava come tutor psicologico del liceo. Parcheggiò e si diede un'occhiata al rossetto nel retrovisore, si aggiustò i capelli con la mano e infine uscì faticosamente dalla macchina". Presa diretta, come si vede.
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